Divagazioni letterarie
Soglie
Gérard Genette è autore, tra gli altri, di un bellissimo libro dal titolo "Soglie", dove si occupa delle soglie testuali, ovvero i dintorni del testo: epigrafi, dediche, titolo e sottotitolo, prefazioni, ecc. Il paratesto è parte integrante del testo, ma allo stesso tempo, ne è confine. Le soglie di cui parla Genette sono, vale a dire, i cosiddetti margini testuali. Essi si integrano col testo, lo completano ed esplicano, ma occupano una posizione decentrata, al punto che per lungo tempo i critici ne hanno sottovalutato il ruolo. Considerando che la semiotica moderna induce a considerare qualsiasi forma comunicativa come un testo, il discorso fatto da Genette può essere ampliato al punto da includere i margini del discorso, quelli della comunicazione e, più in generale la dialettica intrinseca alla dualità centro-periferia. Un ruolo di primo piano, tra le soglie testuali, è occupato dall'epigrafe. La citazione, che può anche essere parte del testo, rinvia a un altro libro, un altro autore: a un altro. La letteratura è questo: dialogo inesausto, fonte inesauribile di esperienza e conoscenza, di sé e degli altri. Tanto più l'alterità considerata è distante da noi, dal nostro testo, tanto più è fonte di ricchezza. Julia Kristeva, fine psicologa e critica letteraria, non esita a farci notare come ciò che rifiutiamo dell'altro è l'ostacolo da superare per accordarci e far pace con noi stessi. Così, qualsiasi marginalità, qualsiasi diversità, testuale e umana, non è che un'occasione di scambio, conoscenza di sé mediante l'altro, arricchimento. Il margine è il confine di cui il centro ha bisogno per fondare la propria essenza.
Jenin
Jenin - Un campo palestinese è una brevissima opera di Tahar Ben Jelloun, scrittore marocchino, autore di libri splendidi tra i quali Creatura di sabbia. Jenin è un campo profughi palestinese, teatro di scontri atroci nel 2002. Quello di Jenin fu un vero e proprio eccidio, in cui esseri umani innocenti perirono; un eccidio, come tanti, troppo presto dimenticato. Dimenticato come questo popolo, di cui oggi è sempre più difficile parlare. Ma veniamo al libro. E' un quadro questo libro, che ricorda Guernica, per il grido dolore che si spande dalle voci che lo popolano: uomini, bambini, una donna, un cammello, la voce dell'autore e quella di oggetti laceri, a brandelli, e ruderi, palazzi che si sbriciolano:
Il sole mi fa male. Si prende gioco dei miei occhi. Mi mostra un gruppo di case, poi le fa cadere come un castello di carte. Crollano rapidamente. Una nuvola di polvere si alza o cade, non lo so più. Alcune nuvole di questa polvere restano sospese nell'aria. Se piove, la pioggia sarà nera. Pioveranno cristalli, stelle in frantumi, angoli di ricordi scritti su fogli scuriti dalle nubi. Il cielo è vuoto.
E ancora:
A cosa serve urlare? Nessuno ci sente. E coloro che possono sentirci non possono venire a farci visita. Siamo isolati. Non esistiamo più. Vivi o morti, non abbiamo diritto all'esistenza. Il campo è stato sbarrato. Nessun testimone. Nessun osservatore. La guerra deve essere fatta a porte chiuse.
Jenin, la donna che dà voce al dolore di un popolo, si aggira per questo paesaggio devastato, di sole e sangue, di morte e desolazione. A denunciare la brutalità della guerra. Di ogni guerra. Segue la poesia. E con la poesia il libro si chiude, con la voce di un poeta palestinese, Mahmud Darwish, poeta dalla "nazionalità indeterminata", che per Jelloun è incarnazione stessa del dolore di questo popolazione senza terra e senza Stato. L'autore cita Darwish:
Esci a Kaifa per cercare una cartolina carina: Kaifa che bagna i suoi piedi nel Mediterraneo e le cui mura toccano il cielo. E cosa trovi? Non la minima riproduzione di una rosa o di una spiaggia, di un uccello o di una donna. Tutte queste immagini sono sparite per far posto ai tank, ai fucili, agli aerei; il muro del Pianto, le città occupate e il canale di Suez. E quando per caso vedi un ramo di olivo, scopri che è disegnato sull'ala di un aereo da caccia francese. Non mandi niente ai tuoi amici, niente a parte il silenzio del tuo cuore. Un silenzio che non li raggiungerà mai.
E di Darwish, Jelloun scrive che non è un poeta impegnato, né militante, né eroico: è la poesia ch'egli scrive a tratteggiarne il ritratto. La poesia. La poesia con le sue mille sfaccettature e le sue infinite possibilità può aiutare e far riflettere in questo tempo così cupo come quello che viviamo. Un tempo che spesso sentiamo ingiustamente paragonare alla guerra, al dopoguerra. Un tempo di isolamento, di spazio precluso e diversamente concepito. Di distanza, distacco. Dagli altri e dalla quotidianità cui eravamo abituati. Un tempo duro, un tempo in cui il dolore sembra più vicino, le difficoltà anche, in cui dobbiamo lottare maggiormente per conservare la speranza. E allora colgo l'occasione del nuovo anno che si è appena aperto per augurare speranza e per proporre l'arte come rimedio alle nostre solitudini e alle nostre paure, ai nostri dubbi e interrogativi sul presente e sul futuro, vivendo nella certezza che più della politica, più della ragione, l'arte possiede una saggezza eterna che unisce e costruisce.
La Storia, quest'ingombrante presenza: sullo strutturalismo e le sue implicazioni
Lo Strutturalismo è un movimento linguistico, filosofico, antropologico, psicologico che nasce nel secondo Dopoguerra, sotto la spinta di un'opera che è divenuta pietra miliare dell'analisi critica e della storia del pensiero umano: Il corso di linguistica generale di Ferdinand De Saussurre. Lo Strutturalismo si divide in varie correnti e ha avuto diverse ramificazioni. Mi limiterò a considerarne gli aspetti generali, per riflettere su un modo tipicamente moderno di intendere il testo, in senso lato, nella nostra società e nel nostro tempo. E forse può essere utile partire proprio dall'idea di testo dello Strutturalismo, che lo considera come una un'unità autonoma composta da determinati elementi strutturali che lo caratterizzano e tra i quali esistono rapporti di dipendenza. Questo testo, che non è altro che un enunciato frutto di un'enunciazione, può essere analizzato autonomamente nella sua struttura; sul piano, cioè della sincronia. E questo è uno degli elementi principali su cui vorrei soffermarmi. La diacronia, il divenire storico, il "farsi nel tempo" è abolito. Si tratta di una reazione alle teorie filosofiche e storicistiche dell'Ottocento, certo, ma anche ai totalitarismi che in quegli anni venivano lasciati alle spalle. Si determinava, insomma, l'autonomia dell'arte dalla storia. Per la prima volta, si approcciava il prodotto culturale come un'entità autonoma, secondo il metodo proprio delle scienze naturali. E la semiotica strutturale si spinse oltre. Se tutto è segno, e tutto è codice, lo è perfino il mondo naturale. Il segno è l'unità minima di significazione da cui il linguaggio è formato. Se possiamo comunicare, lo dobbiamo all'arbitrarietà del segno, al processo di convenzioni su cui si fonda. Il segno, nella sua dicotomia di significante e significato, costituisce gli enunciati. Ogni enunciato è costituito da uno o più segni in rapporto tra loro. Il testo, inteso come atto comunicativo, sia esso un articolo di giornale, uno spot pubblicitario, il rosso di un semaforo o una foglia che cade da un ramo, è dunque un codice da decifrare sulla base del sistema di significazione arbitrariamente adottato. Mi limito all'aspetto superficiale del discorso, per riflettere sulle implicazioni di questa prospettiva, che, se da un lato, sancisce l'autonomia del testo, dall'altro estromette la storia e sembrerebbe relegare lo stesso testo in una situazione di vacuità contestuale; a un meccanismo da smontare e rimontare. Ma una via d'uscita c'è, ed è proprio quella del contesto, che lo Strutturalismo esplica come una delle funzioni del testo. Che la storia, uscita dalla porta, rientri dalla finestra? Il contesto, infatti, può essere inteso come una variabile che riguardi il momento dell'enunciazione e quello della ricezione. La pretesa astoricità del testo, quindi, decade. Probabilmente tornerò su queste riflessioni. Si tratta di un argomento particolarmente attuale in una società che sembra vivere in un eterno presente.
Vittorini tra Conversazione e Le città del mondo: due viaggi in Sicilia
E' celebre l'attacco di Conversazione in Sicilia:
Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.
E poi:
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui.
Si è in piena guerra e il protagonista, il giovane Silvestro, decide di tornare in Sicilia a trovare la madre, abbandonata dal padre. Inizia un lungo viaggio in treno, in cui incontra una figura quasi mitica, quella del Gran Lombardo, che incarna una Sicilia attiva e industriosa, e poi, soprattutto, inizia un lungo viaggio con la madre Concezione, di casa in casa, per quell'altra Sicilia antica, umile, malata, sofferente.
Era una piccola Sicilia ammonticchiata, di nespoli e tegole, di buchi nella roccia, di terra nera, di capre, con musica di zampogne che si allontanava dietro a noi, e diventava nuvola o neve, in alto.
E' quasi una discesa agli inferi quella di Silvestro, da cui uscirà, non più in preda ad astratti furori, ma deciso a tornare a Milano, al suo lavoro di intellettuale e redattore.
Di tutt'altro tenore il viaggio di padre e figlio nel romanzo Le città del mondo, uno dei racconti più poetici della nostra letteratura. Il viaggio è per una Sicilia quasi mitica, in cui la donna è figura positiva, attiva. Un viaggio attraverso città belle e meno belle o addirittura brutte, tutte racchiuse in questo mondo a misura di bambino e insieme uomo adulto che è la Sicilia. E la città più bella è Scicli. E' una strana musica ad accoglierli:
(...) in quella musica vibrava uno strano miele come se un'orchestra suonasse davvero da qualche parte: o di sopra a loro nella profondità del cielo, o di sotto a loro nella profondità della terra su cui sedevano. Istintivamente, sollevarono gli occhi a cercarla entro il culmine dell'azzurro. (...) Era come qualcosa che arrivasse lassù a un compimento immortale da uomini lontani da migliaia di anni o di migliaia di chilometri.
E ancora:
"Ma che cos'è?" domandò. "E' Gerusalemme?" Aveva negli occhi punte aguzze di sole che gli impedivano di distinguere che faccia facesse suo padre. L'udì in ogni modo rispondergli: "Non so che città sia" Egli, con questo, non aveva detto che non poteva essere la città per eccellenza: Gerusalemme o altro che si chiamasse.
In questa Sicilia che strizza l'occhio all'industrializzazione, in cui la musica che s'ode, quasi venisse dal cielo, è confusa con un imprecisato suono metallico e insieme con lo sfrigolio d'un carretto, le città belle sono quelle in cui la gente è contenta perché vive bene; bella la città e bella la gente. Vittorini abbraccia l'utopia dell'industrializzazione a misura d'uomo. Non suonava il piffero per la rivoluzione, ma abbracciava l'idea di una Sicilia industrializzata e moderna. L'utopia vittoriniana crollò, e si mostrarono veritiere le intuizioni di Pasolini piuttosto, riguardo lo sfregio inferto al paesaggio dagli impianti industriali (pensiamo a Gela, Priolo, Milazzo...) e la scomparsa di culture millenarie; in Sicilia, soprattutto, del mondo contadino. Eppure Le città del mondo resta un'opera unica del panorama letterario italiano e siciliano, poiché vi si respira un'aria nuova, una ventata d'ottimismo declinata nel tono magico della fiaba ai limiti del mito. Ci insegna, però, l'esperienza vittoriniana, che non v'è utopia se non con al centro l'uomo e che progresso e sviluppo, come scriveva Pasolini, sono due concezioni assai diverse della vita, del lavoro, dell'essere umano.
La biblioteca
E' un luogo e un topos, un archetipo ormai. La parola, etimologicamente, è composta dai due significati di "libro" e "scrigno", quindi scrigno in cui si conservano i libri. E immaginiamo le antiche case, romane magari, in cui vi erano questi scrigni pieni di libri. Un bene prezioso. Come preziose erano certe librerie, e alcune lo sono tutt'ora, attorno le quali si riunivano scrittori e bibliofili, alla scoperta di gioielli rari e sconosciuti. E poi le grandi biblioteche, vere e mitiche: quella di Alessandria ad esempio. E le biblioteche degli scrittori: quella di Leopardi, Alfieri, Lucio Piccolo. E le biblioteche delle università, quelle civiche, quelle delle accademie. Tutti noi ne abbiamo visitate, subendone il fascino. Ad alcune, immancabilmente, siamo rimasti più legati. Da altre affascinati per la grandezza o la maestosità dell'edificio e la gran quantità di libri conservati al suo interno. Infine, le biblioteche domestiche, quelle delle nostre case, che portano il segno della nostra conoscenza, del nostro gusto, sulle quali ci siamo formati. E le biblioteche di amici e conoscenti. Vorrei parlare di alcune biblioteche in particolare: una descritta nel libro di Borges Finzioni, le altre in Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. Uno dei racconti del libro Finzioni, La biblioteca di Babele, è metafora della biblioteca come luogo di ricerca e conoscenza, come labirinto in cui poter trovare la verità, l'uscita, dopo un lungo viaggio iniziatico, o perdersi, preda della falsa coscienza. Il libro articola l'immagine di una biblioteca come luogo allucinatorio in cui ogni cosa e il suo opposto sono inclusi, al pari dell'universo. In Nottetempo, casa per casa nelle biblioteche descritte, appartenenti a personaggi distinti, si confrontano per mezzo dei libri, visioni del mondo: c'è la biblioteca polverosa, che ricorda quella del manzoniano Azzeccagarbugli, in cui si trovano testi ecclesiastici, vite dei santi, libri di scienza, c'è quella che include testi politici, il Rapisardi, e poi una biblioteca umanista, che include Tolstoj, Dostoevskij e i grandi classici della letteratura. Senza entrare nel merito dei due libri e nello stile dei due autori (così diversi!), vorrei riflettere sul diverso sguardo che si posa sulla biblioteca. Si tratta di due modi di intendere la vita e la conoscenza: astratto quello di Borges, dal basso verso l'alto, che scruta il cielo quasi alla ricerca di un segno, di una verità del cui stesso raggiungimento si dubita, profondamente calato nelle cose quello di Consolo, che dall'alto guarda il mondo nel suo infinito dispiegarsi. E' un codice la biblioteca, la vita, è ricerca e affanno o è un mezzo attraverso cui dialogare con l'altro e innalzarci umanamente? Forse, al pari dell'universo ci ridimensiona, ci fa sentire socraticamente e leopardianamente piccoli, pulviscoli di stelle persi nell'immenso cielo della conoscenza oltre che in quello del cosmo, e allo stesso tempo, ci fa sentire a casa, in un luogo familiare e caro, che abbiamo costruito con le nostre forze e il nostro amore.
Narratore e narrazione
La parola narrazione è entrata a pieno titolo a far parte del lessico comune dell'opinione pubblica italiana. Molto malamente. Sentiamo spesso utilizzare espressioni quali: "all'interno della narrazione di tal partito, ecc." o "la narrazione legata alla professionalità, ecc.". Il termine narrazione è utilizzato per delineare il quadro generale che emerge da un discorso relativo ad un argomento, quasi in sostituzione del simile termine "racconto". E' un utilizzo sbagliato della parola e, per quel che può valere, mi piacerebbe mettere un po' d'ordine e prendere spunto da quest'argomento per analizzare brevemente cosa si intende realmente per narrazione, in letteratura e in generale nell'arte, facendo riferimento a un testo di Walter Benjamin che, nell'opera "Il narratore. Considerazioni sull'opera di Nicola Leskov", inclusa in Angelus Novus, ci accompagna alla scoperta di questo genere antico e indicibilmente prezioso, sia artisticamente che socialmente. La narrazione è il discorso del narratore. Benché lo sembri, l'affermazione non è banale, poiché per narratore non intendiamo un semplice affabulatore, ma un uomo che molto sa e molto ha visto, sa della vita e intuisce del futuro. Il narratore è una persona di grande sensibilità, la cui conoscenza investe l'intero campo dell'esperienza, e che proprio quest'esperienza, accumulata nel corso dei suoi lunghi viaggi, reali o metaforici, trasmette nella narrazione. Il narratore attinge dalla memoria, che è patrimonio ampio e comune, diverso dal ricordo. Per Benjamin, il narratore è persona di "consiglio", dove per consiglio si intende meno la risposta a una domanda che la proposta relativa alla continuazione di una storia. Fatto questo, probabilmente, difficile da capire per chi, come noi, ha perso la capacità di scambiarsi esperienze. La narrazione, quindi, rispetto al romanzo e al racconto, è sempre dotata di una portata morale. Ed è sempre denotata culturalmente e socialmente. Essa non è mai solipsistica. Soprattutto, rispetto al racconto e ancor più al romanzo, che nasce col nascere della stampa, la narrazione ha radici nell'oralità, da quel bisogno universale che l'uomo ha di scambiarsi esperienze. Ed è paradossale ma significativo che proprio la società dell'informazione, nata dalla stampa, prenda possesso, rovesci e abusi di questa parola antica e carica di significato.
Una metafora
La metafora è una figura retorica di traslato la cui etimologia deriva dal greco e significa "portare oltre". E la metafora fa questo, ci prende per mano e ci porta verso luoghi nuovi, inaspettati, ci fa leggere il mondo e le cose con occhi nuovi. E' diversa dalla similitudine, che offre l'oggetto del paragone per parallelismo. La metafora lo offre per analogia: in assenza, stimolando l'immaginazione. E' una metafora il porto sepolto di Ungaretti, lo sono i limoni di Montale, ma anche gli ossi di seppia, è una metafora quella dell'olivo e dell'olivastro. La metafora si spinge, mediante il linguaggio, oltre il linguaggio. E l'allargamento del senso che essa offre è tanto più vasto e imprevedibile quanto più è profonda la metafora. Vorrei condividere un passo di Vincenzo Consolo tratto da La ferita dell'aprile (1963):
Così rugoso e scuro, così contorto, il carrubo l'avevo sempre pensato che affondasse le sue radici nelle viscere della terra. Il suo tronco mi pareva di tufo e i frutti di cartone. L'ulivo come il carrubo, la vite e l'asino e le capre, certi vecchi arroccati ma saldi, mi parevano cose antichissime e immortali.
Consolo descrive poeticamente (bellissima l'immagine dei frutti di cartone) una serie di entità reali, concretamente reali, appartenenti al paesaggio siciliano, che gli erano familiari al punto da reputarle imperiture. Ma non aveva fatto i conti con la storia che in quegli anni modificò profondamente la vita dell'Italia e del meridione, stuprandone irrimediabilmente il volto. In Sicilia, soprattutto, si assistette alla migrazione di massa nel settentrione del Paese, con le conseguenze che tutti conosciamo. Il libro è un racconto di iniziazione di alcuni ragazzi che vivono in Sicilia negli anni del dopoguerra, tra scoperte adolescenziali e umane e fatti storici calati nella particolarità delle loro vite. La strage di Portella, la presenza americana e quella mafiosa sono tutti aspetti trattati nel libro, il cui titolo è emblematico: è un'altra metafora. Diceva Eliot che aprile è il più crudele dei mesi. E' un topos letterario questo della crudeltà dell'aprile, cantato anche dalla Dickinson. La ferita è una ferita doppiamente profonda: esistenziale e storica. La ferita dell'adolescenza, la ferita inferta alla Sicilia dai fatti storici e la ferita dell'autore che, attraverso gli occhi del suo io ragazzo, le cui voci si fondono (anticipando, per alcuni versi, con questa fusione di voci, ciò che poi avverrà ne Il sorriso dell'ignoto marinaio), ri-vive e ri-soffre quei fatti. Il libro è una narrazione, un racconto lungo, ma intervallato da spazi se non poetici certo visionari come quello citato. Caratteristica questa che si approfondirà nelle successive opere, dove lo spazio del racconto si restringe e quello della poesia si allarga. Ma Consolo non cesserà mai, nei suoi romanzi, articoli, saggi e interventi, di dare nuova linfa a quelle radici cantate in questo passo, perché portatrici di una saggezza millenaria di cui, mai come in questo tempo, abbiamo bisogno.
Su Leonardo Sciascia
In molti scritti, Vincenzo Consolo, che di Sciascia fu amico, discepolo ed erede letterario, pur praticando immancabilmente quello che Sklovskij definirebbe il suo parricidio poetico, definisce lo scrittore di Racalmuto scrittore di pensiero. Consolo, rifacendosi a Pirandello, attua una dicotomia tra quelli che definisce scrittori di pensiero, tra cui Sciascia appunto, ma anche Calvino ad esempio, e scrittori di sentimento, come Verga. O anche scrittori che usano una lingua piana, comunicativa, referenziale, che procedono in linea retta, e scrittori espressivi, che usano una lingua non più comunicativa e procedono a spirale: scrittori di cose e scrittori di parole. E' una distinzione che richiama alla mente il titolo del libro di Focault Le parole e le cose, anche se io credo che a influenzare maggiormente Consolo nel praticare questa distinzione, furono soprattutto la lettura delle analisi linguistiche di Pasolini e di Vittorini, scrittore carissimo a Consolo. Non voglio entrare nel merito del dibattito linguistico, né rifarmi alla critica letteraria, ma solo delineare un ritratto linguistico-letterario che uno scrittore fa di un altro scrittore nel quadro più ampio delle discussioni sulla lingua italiana che sempre hanno accompagnato la nostra storia. Non a caso, secondo Leopardi l'italiano era la lingua in assoluto più "parlata", nel senso che è stata in assoluto la lingua su cui più si è dibattuto. E allora forse è giusto partire da qui, da Leopardi, che distingueva l'italiano dal francese notando soprattutto la stratificazione di quest'ultimo rispetto alla lingua razionale e rettilinea dell'illuminismo. L'italiano ha in sé infinite lingue, dal latino al volgare ai dialetti, dall'italiano colto della tradizione letteraria a tutte le lingue della colonizzazione del nostro paese (dall'arabo al francese). Ma veniamo a Sciascia. Consolo ha scritto tantissimo su Sciascia; tra loro, il legame, umano e artistico, era profondo. Sciascia scrittore di pensiero dunque, scrittore illuministico, razionale, ma scrittore che viene dalla zolfara, i cui nonni erano stati carusi nelle zolfare. Secondo Consolo l'utilizzo di una lingua comunicativa segna l'assoluta fiducia di uno scrittore nella società, nella conversazione, nella ricezione del lettore, al contrario di chi pratica una lingua espressiva e deve spostarsi sul terreno più consono della poesia, per comunicare in un altro linguaggio. Sciascia, quindi, aveva fiducia nella possibilità di comunicare ed essere compreso, usava la penna come una spada, dice Consolo, per combattere le storture e gli inganni del potere. Soprattutto quello politico-mafioso. Ha scritto tantissimo Sciascia: articoli, rubriche, saggi, pamphlet, romanzi.. Ma soprattutto, ha scritto romanzi gialli. E qui veniamo alla scelta del genere letterario. Secondo Consolo, la scelta del giallo da parte di Sciascia nasceva dalla necessità di sviscerare le dinamiche del potere, illustrarle per portarle alla luce e renderle comprensibili. Mentre nel giallo, abitualmente, si passa dal mistero, dal delitto, allo scioglimento e all'individuazione del colpevole, nei romanzi di Sciascia si denuncia spesso l'impossibilità, nella nostra società, di arrivare a una compiuta giustizia. Spesso, infatti, il potere dovrebbe indagare su se stesso: contraddizione in termini. Il merito di Sciascia, dal punto di vista linguistico e strettamente letterario, è in primo luogo quello di aver portato varie problematiche alla luce del sole, al dibattito pubblico. Dal buio della zolfara alla luce dell'agorà.
Una postilla: Sciascia è tristemente noto per l'articolo I professionisti dell'antimafia. Vorrei dire che a muovere Sciascia, che tutta la vita dedicò alla lotta per la giustizia, non era la mancanza di fiducia in quegli uomini che oggi, giustamente, acclamiamo come eroi, ma la maggiore fiducia riposta nello Stato di diritto e nei suoi ingranaggi. Per Sciascia, il fenomeno mafioso era da combattere con le leggi dello Stato, poiché per lui la mafia proliferava proprio dove lo stato era assente o non funzionava correttamente. Inoltre, egli, probabilmente, temeva una deriva autoritaria in Sicilia giustificata proprio dall'affermarsi del fenomeno mafioso.
Leggere
Leggere deriva dal latino lego, che significa, in primo luogo, raccogliere. Leggendo, raccogliamo ciò che altri hanno seminato e ci donano. Secondo Tzvetan Todorov, infatti, la letteratura è innanzitutto un atto d'amore. Leggere è un modo di vivere altre vite, mettersi nei panni degli altri, siano questi personaggi di romanzi o autori, soprattutto nel caso di saggi o poesie. Leggendo, viviamo infinite avventure, vediamo con una quantità innumerevole d'occhi, assumiamo una varietà incalcolabile di punti di vista, proviamo una moltitudine di sentimenti e stati d'animo. Viaggiamo, ammiriamo paesaggi, ma, soprattutto, ci ossigeniamo, respiriamo. Vaghiamo per boschi inesplorati, percorriamo sentieri, guardiamo il mondo dall'alto o ci inabissiamo (e andare a fondo, come diceva Tenco, non significa affondare..). Che leggiamo in modo disordinato quello che ci capita sottomano, come si fa spesso durante l'adolescenza, che leggiamo per lavoro o per svago, per studio, in modo sistematico o spensierato, per autore o genere, la lettura ha il potere di farci crescere umanamente, di migliorarci, avvicinarci agli altri, alimentare il nostro sentimento di appartenenza al genere umano prima ancora che ad una cultura o ad una società. Non solo, la lettura ci insegna anche a gestire il nostro tempo, essendo il tempo della lettura, ossia quello della fruizione, a differenza che in altre forme d'arte, interamente nelle mani del lettore. La letteratura, così bistrattata nella nostra società, è una possibilità concreta di migliorare come individui e, allo stesso tempo, come collettività.
Janine Niepce
Janine Niepce
La poesia ne I Malavoglia
La poesia ne I Malavoglia si respira come fosse brezza marina su uno scoglio di Acitrezza. Con Verga entriamo nelle case del paese, chiacchieriamo con gli abitanti del villaggio, andiamo per mare con i pescatori, soffriamo con loro la rottura di quel cerchio d'assoluto equilibrio al di fuori del quale è la perdizione e la rovina. Non è solo l'espediente stilistico dell'indiretto libero a rendere possibile la poesia in questo romanzo (che è corale prima d'essere ascritto a una qualsiasi delle categoria cui la critica vuole intrappolarlo - verismo in primis), è l'arte di Verga, il quale si nutre di quei discorsi, di quell'atmosfera che troviamo nei suoi romanzi, a rendere possibile la poesia. Lui leggeva la vita che gli stava intorno, quella di Acitrezza così come quella dei salotti milanesi. Usava dire: "io non leggo, scrivo", per sottolineare come la sua fosse una scrittura che non scaturiva dalla tradizione letteraria, dalla polvere delle biblioteche, ma da quella biblioteca immensa e meravigliosa che è la vita. Non è facile il mestiere dello scrittore, quando questo si trova a dover dar parola a chi parola ne ha sempre avuta poca, a quei personaggi così lontani da chi scrive sia dal punto di vista sociologico che antropologico, eppure Verga riesce magistralmente nella sua missione. E non solo dà voce a chi voce non ne ha mai avuta un gran ché, non solo riesce a raggiungere la coralità della comunicazione, ma riesce a far parlare la natura e le cose. Ne I Malavoglia conosciamo il mare allo stesso modo in cui familiarizziamo con don 'Ntoni, esso diventa una presenza reale cui prestare ascolto, così come tanti piccoli gesti, tanti oggetti, come la Chiesa, la piazza e la casa del nespolo. Dice Verga che "il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare". Quella de I Malavoglia non è mimesis, non è un'operazione naturalistica, ma un'operazione poetica, nata da una seduzione del cuore, da una fascinazione del suo autore per la gente della sua terra, per i sofferenti, per gli ultimi, e quindi per la giustizia e la verità.
Perché leggere i classici?
Perché leggere i classici? è il titolo di uno splendido libro, nonché saggio, di Italo Calvino. Calvino ci regala un elenco di definizioni e ragioni per cui leggere i classici. Ho intenzione di ricopiare il suo prontuario, affascinante come solo la lucidità calviniana sa essere (lucidità poetica, che ammalia in una lingua referenziale e comunicativa), non prima però di aver umilmente dato le mie ragioni per cui io leggo solo ed essenzialmente classici. Esistono i classici contemporanei, difficili da scovare, rari, rarissimi e per questo da tener stretti se scoperti, ma l'occhio della lettrice che sono si rivolge per lo più al passato. Per me classici sono quei libri la cui scrittura è poetica, vale a dire, come la poesia, stratificata. Una stratificazione di senso e significante, una stratificazione affascinante. Una voce. Devo poter familiarizzare col classico, sentirlo vicino, che mi sorprenda o meno poco importa, ma deve poter essere un compagno fedele. La sua lettura, soprattutto, deve ossigenarmi, alleggerirmi, farmi riflettere magari, ma con dolcezza, lievemente. Il classico, come ogni buon libro, deve poter essere abitato. E non deve smettere di parlarmi. Anche e soprattutto quando il libro l'ho abbandonato. E deve sempre esercitare su di me un richiamo. Devo volerlo riaprire il libro, di tanto in tanto.
Ed ecco l'elenco calviniano.
1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: "sto rileggendo.." e mai "sto leggendo.."
2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nella condizione migliore per gustarli.
3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.
4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.
5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.
6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.
7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).
8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.
9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.
10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.
11. Il "tuo" classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.
12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.
13. E' classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.
14. E' classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.
In questo periodo di pandemia la lettura è stata una riscoperta, che mi dà grande sollievo e mi invita ad avere tanta speranza.Buona lettura a tutti
RispondiEliminaSono contenta, che sia un momento di crisi propositivo e vivifico grazie anche alla lettura
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