Poesia
Breve viaggio attorno al fuoco
Radunerò tre poeti e un grande affabulatore attorno al fuoco: Pascoli, Ungaretti, Pasolini e Calvino. Un fuoco che per Pascoli e Ungaretti è il vero e proprio focolare, seppur diversamente declinato, per Pasolini e per Calvino il fuoco metaforico della vita che si consuma. La poesia di Pascoli è tratta da Primi Poemetti (1907) e il titolo è, appunto, Il focolare. Il candore e l'intensa umanità di Pascoli si esplica pienamente in questa lirica, dove il focolare si trasforma nella "mortal catena" de La ginestra leopardiana. Il poeta descrive brevemente un paesaggio invernale; siamo all'aperto e nevica. Ma il luogo in cui sembra nevicare davvero è il cuore della dolente umanità descritta nel solipsismo:
Piangono i più. Passano loro grida
inascoltate: niuno sa ch'è pieno,
intorno a lui, d'altro dolor che grida.
Questi individui, soli e sofferenti, scorgono una capanna al cui interno vi è un focolare. E qui rinasce la vita, non nell'individualità, ma proprio nello stare insieme, quasi che, nel fuoco, il dolore venga trasfigurato in fratellanza piena.
Intorno al vano focolare a poco
a poco niuno trema più né geme
più; sono al caldo; e non li scalda il foco
ma quel loro soave essere insieme.
La delicatezza del Pascoli, il suo spirito tenero e sensibile, la sua soave leggerezza, il bisogno del calore e degli affetti si esplicano pienamente in questa lirica.
Altro focolare è quello che Ungaretti sceglie in Natale, poesia del 1916 inclusa nella raccolta Allegria, nella sezione Naufragi. Qui il focolare è quello casalingo, quello della momentanea tregua dalla guerra e dal fronte, dai suoi orrori, dalle sue macerie. Scrive il poeta:
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
"Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata", dice il poeta, quasi a volersi momentaneamente congedare dal dolore della vita, dalle ingiustizie della guerra che ha sempre cercato di trascendere per mezzo della poesia. Una poesia che in lui è non solo rottura con la tradizione linguistica e letteraria, ma scavo in sé stesso e nella parola. E i lunghi silenzi degli spazi bianchi, questi continui enjambements che lo caratterizzano, sono proprio il segno visibile di questa operazione. E' bellissimo l'utilizzo del verbo stare, che ricorda la poesia Soldati, in cui lo "stare" indica più che la caducità, la concreta e terribile fragilità della vita al fronte e, in questo caso, la condizione solo momentanea di benessere provata dal poeta davanti al fuoco; a voler legare, attraverso questo suo "stare" le due contrapposte situazioni. Opposte, ma ambedue transitorie.
E poi Pasolini:
Bisogna bruciare per arrivare
consumati all'ultimo fuoco.
Versi laconici, quasi ermetici, ma Pasolini è tutto fuorché ermetico; versi inclusi nei Diari 1943-1953, nella racconta Poesia con letteratura (da qui è lecito il richiamo all'ermetismo). E' la vita che brucia, siamo noi che vivendo dobbiamo bruciare, vivere pienamente per arrivare "consumati", cioè avendo pienamente vissuto alla morte: l'ultimo fuoco. Quasi esistenzialista Pasolini in questo essere-per-la-morte. Ma i componimenti che precedono e seguono chiariscono questi versi. Gramscianamente canta:
Ogni giornata è l'ultima,
nello stupore del caldo mattino,
delle fresche voci: e cosa importa
essere chiari, dentro, per soffrirla
nella intera estensione del suo tempo,
se l'ora della vita è sempre l'ultima?
L'averla troppo sofferta, e quindi
consumata: ecco perché vivo nel miracolo
di vederla ancora intatta. Nessuno
sa più di me goderla con tanto infantile
e ideale abbandono, ma nessuno
sente più di me quella vergine gioia
come un sacrilegio..
Negli appunti alla lirica seguente si legge:
Ho sentito sempre questa gioia
e questa certezza in una vera,
assoluta morte.
Verso essa scendo,
con l'occhio pieno del mondo
per cui ho solo un'inetta
nostalgia.
Era necessario
che mi perdessi, e mi sono perso;
ma chi è nel mondo esiste
perché qualcuno manca.
Il sentimento di nostalgia per Pasolini è conoscenza:
La conoscenza è nella nostalgia.
Chi non si è perso non possiede.
Descrive la vita come un fuoco sacro Pasolini in queste sue poesie. Un fuoco che brucia senza consumare in virtù della sofferenza. E' perdita la sofferenza, ma senza nostalgia di ciò che si è perso, non vi è conoscenza. E la morte che descrive, verso cui scende, è una determinata morte al mondo più che alla vita, tanto che negli ultimi versi non parla più di vita, ma di esistenza. E qui c'è un'eco al suo ruolo di intellettuale descritto in Uccellacci e uccellini.
E infine Calvino, che ne Le lezioni americane delinea due differenti ideali letterari sulla base dello sguardo che si posa sul mondo: da un lato il determinismo e l'atomismo lucreziano, dall'altro le Metamorfosi ovidiane. Da un lato il cristallo, nella sua determinatezza e perfezione, dall'altro il fuoco che muta in un perpetuo trasformarsi.
Pasolini e Ungaretti
Sull'Orlando Furioso
E' un poema di cui sono letteralmente innamorata, e lo dico contravvenendo un po' al mio senso del pudore. Parlare di Ariosto senza sembrare banali non è facile, tanto è geniale e ampia la portata della sua opera. Eviterò però le analisi, e mi lascerò trasportare da una seduzione del cuore, cui non nego possa seguire, in seguito, un approfondimento. Di Ariosto amo la leggerezza e l'equilibrio, la schiettezza dei toni e del sentimento. Amo la sua modernità e il suo amore per le passioni umane, comunque declinate. Del Furioso amo il tema cavalleresco e il modo in cui Ariosto lo fa proprio, rinnovandone i canoni, secondo lo spirito del Rinascimento che perfettamente incarna. E amo l'ottava, il modo in cui Ariosto la usa e la spezza sulla base della necessità poetica, diegetica e del gusto. Il poeta letteralmente vola sulla materia cantata, aderisce a ogni moto d'animo dei personaggi, è dinamico e puntuale al tempo stesso, dà spazio agli affetti più puri e a quelli più truci. Nessun sentimento prevale sull'altro, nessun personaggio, nessuna avventura, né il magnifico prende il sopravvento sul realismo. L'immaginazione ariostesca e la sua profonda arte fanno sì che ogni scena, ogni battaglia, ogni tipo d'amore trovino ugualmente spazio nel poema. E' poeta della leggerezza e della molteplicità. Io ho un debole per l'amore cavalleresco in senso lato, per la lealtà che in esso si manifesta verso i sentimenti a prescindere dalla loro natura, per il fatto che gli affetti umani riguardino anche battaglie e atti di violenza, fenomeni innegabilmente umani. E poi c'è l'amore in senso stretto, che sembra dare il via al poema e sembra esser causa della follia di Orlando, benché questo venga poi confutato. Il tema amoroso è un topos cavalleresco, che arriva a questo mondo passando per Dante e lo Stilnovo. Ma la donna nell'Orlando Furioso assume tratti nuovi, che addirittura la assimilano all'uomo. Basti il personaggio di Bradamente, quello della donna guerriera che lotta per il suo Ruggero, a comprendere quanto rivoluzionaria fosse la materia del Furioso. E lo stesso Ariosto molto spesso, nel poema, si lascia andare a considerazioni sulla donna che lo rendono un vero femminista ante-litteram; cito dal Canto IV:
S'un medesimo ardor, s'un disir parte
inchina e sforza l'uno e l'altro sesso
a quel suave fin d'amor, che pare
all'ignorante vulgo un grave eccesso;
perché si de' punir donna o biasimare,
che con uno o più d'uno abbia commesso
quel che l'uom fa con quante n'ha appetito,
e lodato ne va, non che impunito?
Son fatti in questa legge disuguale
veramente alle donne espressi torti;
Che fa di Ariosto un femminista se non nostro contemporaneo, certo modernissimo fino almeno agli anni Settanta.. E poi le invenzioni letterarie: Astolfo sulla luna, il castello di Atlante, il recupero di personaggi arcaici come l'ippogrifo, i voli sull'Africa e l'Europa, tutti racconti che letteralmente rapiscono, danno respiro, ossigenano l'immaginazione e il pensiero. L'Orlando furioso non è un poema cavalleresco al pari di quelli del Pulci e del Boiardo, è un poema sull'uomo, sulle sue passioni, i suoi moti d'animo e del cuore, i suoi sentimenti, le sue aspirazioni. Un grande classico che non smetteremo di leggere. E che, anche con la dissoluzione della letteratura cavalleresca, nel Don Chisciotte, verrà salvato.
Escher
Su alcune poesie di Montale
Conosciamo tutti la poesia I limoni, che inizia con un riferimento ai poeti "laureati", che "si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti"; ma chi sono questi poeti laureati cui si riferisce Montale? I critici vedono un rimando innanzitutto a D'Annunzio, ma anche a Pascoli e Carducci e ai poeti di quella tradizione con cui Montale sembra rompere. Ma il riferimento è a un preciso paesaggio: non sono i lauri che Montale canta, non è un paesaggio letterario, astratto, seppur carico di simbolismo, ma la natura che gli si presenta dinnanzi, quella della sua terra, racchiusa tra Genova e Monterosso: i muriccioli con in cima cocci aguzzi di bottiglia, le pozzanghere, i canneti, e il sole, la canicola estiva tipica di quei luoghi e che lo riempie di vita che egli canta. Sono i limoni. E immerso in questa natura così familiare, quasi gli sembra di poter raggiungere un qualcosa di indicibile, una certa verità. Gli sembra quasi di poter scoprire "uno sbaglio di Natura, l'anello che non tiene". E' qui, forse, la visione del mondo più vera di Montale, quella di un mondo in cui siamo immersi senza la possibilità di decifrarlo fino in fondo, poiché, nella sua perfezione naturale, esso cela qualsiasi verità. Cosa resta allora quando si disfa l'illusione? Resta il giallo dei limoni, "le trombe d'oro della solarità". E' un topos montaliano questo dell'anello che non tiene: ne ritroviamo un'eco anche nella poesia In limine, in cui il poeta parla di cercare una "maglia rotta nella rete". E se non fossimo dinnanzi a un poeta interamente laico, potremmo dire che l'illusione, la ricerca destinata a rimanere frustrata, è quella poter trovare un errore divino, un errore nel disegno della creazione, nel regno naturale. E a me fa riflettere che in mezzo a tanti poeti e tanti scrittori alla ricerca di mappe e cartografie del mondo, di fronte a una semiotica che descrive tutto come un codice da decifrare, vi sia un poeta alla disperata ricerca di un errore, quasi che da quello spiraglio, come uno strappo del cielo di carta pirandelliano, possa entrare una luce nuova, salvo poi accorgersi che è la stessa solarità in cui siamo immersi la luce vera (come, del resto, Pirandello canta in Liolà). Un'altra dichiarazione di poetica da parte di Montale, si trova nell'opera Satura, di tono molto diverso, quasi giocoso. E infatti è scritta nel 1971, quando Montale ha quasi 70 anni. E sembra aver fatto propria la lezione appresa al tempo de I limoni. Il componimento si intitola Poesia e non è molto noto, quindi lo trascrivo.
I
L'angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l'ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
si guardano d'attorno e hanno l'aria di dire:
che sto a farci?
II
Con orrore
la poesia rifiuta
le glosse degli scoliasti.
Ma non è certo che la troppo muta
basti a se stessa
o al trovarobe che in lei è inciampato
senza sapere di esserne
l'autore.
Che è una grande dichiarazione d'amore nei confronti della poesia, vista quasi come un'entità autonoma che ha fretta di essere, di uscire, per poi rendersi conto di essere inascoltata o, tutt'al più di trovarsi nelle mani degli scoliasti (di cui non ha bisogno: non è una scienza la poesia, né c'è poesia "al sorbetto o al girarrosto", per dire che non è il raptus a produrre poesia, non è il vuoto e non è neanche il calcolo, ché non esiste una ricetta preconfezionata atta a sfornare poesia). Eppure, la "troppo muta", la poesia che non riesce a parlare perché inascoltata non basta a se stessa, né al suo autore (il "trovarobe che in lei è inciampato": a ribadire l'essenza autonoma della poesia, che ci chiama a sé, che anela d'essere ascoltata, che sceglie e non è scelta). La poesia ha un'anima quando vive, nel lettore, quando viaggia per il mondo. Ed è questo mondo nel quale il poeta vive che trova voce in Satura, dove al paesaggio naturale si sostituisce il paesaggio umano, in cui spicca l'amore. E sono bellissime le pagine che Montale dedica alla donna amata.
La metafora delle lucciole
L'articolo delle lucciole esce il primo Febbraio del 1975, pubblicato da Pasolini sul Corriere della sera con il titolo Il vuoto del potere in Italia. Ed è questo il fulcro dell'analisi politica pasoliniana, il fatto che, in quegli anni, il potere politico conoscesse una fase di vuoto, assenza. Ne parlo qui, nella sezione poesia, perché, come lo stesso Pasolini afferma nel suo articolo, per descrivere la situazione italiana ricorre a una metafora, quella della scomparsa delle lucciole appunto. Da poeta qual è, dà una definizione poetico-letteraria di un fatto storico. La scomparsa delle lucciole, reale, dovuta all'inquinamento dell'aria e dell'acqua, coincide con la scomparsa di un intero mondo, con quella che egli definisce la mutazione antropologica degli italiani, con un processo di omologazione degli usi e costumi e delle stesse coscienze, nel quale ancora viviamo. Afferma Pasolini che il potere dei consumi è riuscito laddove il fascismo aveva fallito, nel livellare le coscienze appunto. Più fascista del potere fascista, il potere dei consumi annulla quell'altro potere, quello democristiano. Ma quello su cui vorrei soffermarmi, è il perché Pasolini scelga di parlare di un argomento così fortemente polemico e scottante sul piano politico attraverso una metafora tanto delicata quanto quella delle lucciole. Lo fa perché, da poeta, sa di parlare, attraverso la poesia, un linguaggio universale. E il suo articolo, infatti, acquista una forza e una chiarezza inaudite, al punto che la metafora è ancora attuale, ancora cara a molti, ancora usata. Senza contare gli echi letterari, tra cui, a memoria, ricordo Sciascia e Consolo. La lucciola è la luce notturna che illumina le tenebre; è come il lume pascoliano, il lume di Guernica, è una luce fioca, una luce ovattata e dolce come quella della luna, che non abbaglia, ma permette di aprire gli occhi e non perdersi nel buio delle notti, che, in ogni vita, individualmente e collettivamente, attraversiamo. E' la luce della ragione che non deve spegnersi, la luce della speranza e del sogno. Questa luce, a tutti cara e familiare, a un certo punto scompare. Qui sta la forza della comunicazione pasoliniana, della metafora, della privazione. E siamo fortunati che, a illuminare la via, resti la luce della poesia pasoliniana. Nei suoi versi, nei suoi saggi e romanzi, nelle sue interviste e interventi giornalistici, nelle sue sceneggiature e nei suoi film.
Pedro Salinas
Pedro Salinas è un poeta spagnolo di cui ho letto La voce a te dovuta, curato da Emma Scoles. edito da Einaudi. E' un'opera del 1933 che si colloca nel periodo di piena maturità del suo autore. Una raccolta di poesie d'amore che si configura quasi come un poema d'amore, certamente come un canzoniere, essendo le liriche dedicate alla medesima donna ed essendo numerosissimi i rimandi tra i componimenti. Mentre le prime poesie della raccolta costituiscono spesso un vero inno alla propria donna e al legame con quest'ultima, le ultime sono un po' oscurate da quelle che il poeta stesso definisce ombre. Tema, questo, che tanto affascinò Sciascia, il quale era appassionato lettore di Salinas. Salinas descrive la sua donna come interamente dedita alla vita e all'amore, a un amore che è essenzialmente dono e quasi una condanna, visto che è un continuo dare e conoscere ed un'impossibilità a ricevere. Una donna che solo lui ha la possibilità di conoscere davvero, nella sua essenza, che è ciò che il poeta canta. Al di là di questa, non sono che ombre, ombre della donna stessa, ombre dell'amore. Ombre di baci e sospiri, ombre di braccia e labbra. E' un amore solido quello cantato, stratificato e profondo, un amore che tutti noi vorremmo provare almeno una volta nella vita. Un amore essenziale, nel senso più vero del termine. Tra i miei versi preferiti:
Non ho bisogno di tempo
per sapere come sei:
conoscersi è luce improvvisa.
Dal componimento XII, nella prima parte della raccolta. E più avanti (XXXIII):
No, non ti amano, no.
Tu sì, tu ami davvero.
[...]
Non sei fatta per essere amata;
tu vincerai sempre,
amando, chi ti ama.
Amante, amata no.
Che sono versi bellissimi, che riconoscono una qualità della persona amata nell'amore. L'amore non come esperienza, come valore, come stato, ma, appunto, come qualità.
Yves Tremorin, Les amants magnifiques
Paul Éluard
Paul Éluard è un poeta della prima metà del Novecento, considerato dalla critica un surrealista. Ho letto tutte le poesie con la traduzione e l'introduzione curate da Franco Fortini (Mondadori, 1970), e sono stata piacevolmente sorpresa dal fatto di non trovarmi davanti un poeta surrealista come Apollinaire, il precursore del movimento, o Breton, il suo esponente principale. Quella di Éluard è una poesia profondamente umana, che si evolve con il passare del tempo. ma che non si nutre delle suggestioni dell'inconscio e del sogno. Anzi, è una poesia ancorata alla realtà, o, per meglio dire, alla vita. Nei primi anni il tono è più intimistico, c'è più spazio per temi quali l'amore (e alcune poesie d'amore sono veramente splendide), ma andando avanti i fatti storici quali le guerre e e i fascismi, lo sterminio nei campi di concentramento e gli orrori di quei decenni che tutti ahimè conosciamo, lo inducono ad innalzare il tono della sua lirica. Non è impegno, né storicismo, è semplicemente un'invocazione all'unità degli esseri umani nel nome proprio della loro umanità. Le sue poesie si caricano di una spinta utopistica proiettata nel futuro. E l'utopia, lo sappiamo, nasce sempre dalla necessità di valorizzare la bellezza e l'universalità di valori quali la solidarietà, la fratellanza, la giustizia. Invito a leggere Poesia interrotta, in cui Éluard scrive che "un cuore solo non è cuore", e Poesia e verità 1942, da cui traggo una citazione:
VII
Noi buttiamo nel fuoco il sacco delle tenebre
Noi spezziamo i serrami di ruggine dell'ingiustizia
Ecco uomini vengono
Che non hanno più paura di se stessi
Perché sono sicuri d'ogni uomo
Perché il nemico dal viso d'uomo sparisce.
(Da L'ultima notte)
E ancora, da Poesia interrotta:
Non verremo alla mèta ad uno ad uno
Ma a due a due. Se ci conosceremo
A due a due, noi ci conosceremo
Tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
Un giorno rideranno
Della leggenda nera dove un uomo
Lacrima in solitudine.
Non è che l'amore quello di cui parla Éluard, esattamente come agli inizi della sua produzione poetica, ma di un amore pervenuto a uno stadio di coscienza più alto, tale da racchiudere l'umanità intera. Un invito rivolto a tutti noi. Amare per amare e non per essere amati.
Zanzotto
Nelle Lezioni americane, quando parla della leggerezza, Calvino dice di essere stato indeciso tra il dedicare una lezione interamente alla luna o dedicarla alla leggerezza. Optò poi per la leggerezza perché, dice lui, se avesse parlato della luna, avrebbe dovuto dedicare l'intera lezione a Leopardi. Certamente il rapporto tra la luna e Leopardi è unico, ma non riesce, a mio parere, ad essere esaustivo. Sono tanti i poeti lunari e gli scrittori lunari. La luna è un topos, un luogo letterario, fisico e immaginifico, che da sempre affascina gli uomini e i poeti. Oggi vorrei condividere i versi dedicati alla luna da un poeta veneto che ci ha lasciati nel 2011, Andrea Zanzotto. Il suo legame con la natura e il paesaggio è profondo, al punto che molti critici parlano di un pensiero ecologico del poeta. A me ha sempre affascinato il suo linguaggio, frutto di una ricerca colta ed eterogenea. E questa poesia, dal titolo Nautica Celeste, tratta dall'opera IX Ecloghe (1962):
Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom'io, sai splendere
unicamente dell'altrui speranza.
"Seggo la notte"
E' un verso leopardiano, tratto da La ginestra. Probabilmente il mio verso preferito in assoluto, per la sua compiutezza, per la sua immaginifica capacità di trasportarmi, insieme a Leopardi, su una roccia solitaria ai piedi del Vesuvio (ma potrebbe essere l'Etna), e farmi sognare, mentre le ginestre spandono per l'aria il loro profumo, mondi e luoghi, presenti e futuri, possibili e reali, in cui l'uomo si stringe all'uomo in mortal catena, in una fratellanza degli esseri che sia reale e non immaginata.
La forza del verso consiste interamente nella sua essenzialità. Transitivizzare il verbo fa sì che che la notte sia accolta, come un eventualità, come una possibilità d'essere e d'esserci. Leopardi amava, definendoli poeticissimi, tutti quei verbi e quelle locuzioni che tendono all'indeterminato. Credo qui abbia toccato una delle vette più alte dell'indeterminatezza grammaticale che diventa immagine di grande forza poetica. Suggerisce, accarezza, fa sentire, non definisce.
Mi vedo seduta ai piedi dell'Etna ad ascoltare gli uccelli e sentire l'odore della ginestra
RispondiEliminaE magari guardare il cielo lontano dalle luci della città
EliminaÈ proprio vero quel che scrive Èluard, l'amore unisce: non ci fa sentire soli e non fa sentire soli neanche gli altri
RispondiEliminaAma il prossimo tuo perché è te stesso scrive Herman Hesse
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