Visioni

Modigliani

Modì o Dedo nasce a Livorno nel 1884. Fin da bambino è cagionevole di salute. In gravi ristrettezze economiche per via del fallimento della ditta del padre, la famiglia è interamente sorretta e mantenuta dalla madre. Ma Modigliani è legato soprattutto al mito parigino, allo spirito bohémien, alle avanguardie. Spesso noto per la sua vita dissoluta e per il mito legato al fatto che non dipingesse mai gli occhi a meno di non conoscere l'anima della persona ritratta. Ma immaginiamolo Modigliani a Parigi, circondato da intellettuali e artisti, spesso senza un soldo, in bar non frequentati dalla borghesia del tempo, a bere qualche assenzio e fumare un po' di hashish. E' giusto ridimensionare il mito dell'artista dissoluto, come dimostrano lettere e testimonianze. Del resto, come diceva Pasolini, chi si scandalizza non solo è banale, ma è spesso anche male informato. E poi le donne, le molte donne di cui Modigliani era circondato, e la donna della vita: Jeanne Hébuterne, ripetutamente ritratta. E una volta, su tutte, con un'intensità unica, che fa di quell'opera pittorica una grande opera di poesia. E forse il tratto distintivo di Modigliani era proprio lo spirito poetico. Frequentava le avanguardie, ma nonostante il fascino che alcune su di lui esercitarono in modo particolare, e mi riferisco al cubismo, non aderì a nessuna di esse. Era un'anima libera, indipendente, sia dal punto di vista stilistico-formale che da quello ideologico.L'elemento fondamentale dell'opera di Modigliani è il colore. Colori accesi e intensi dominano tutta la sua produzione. La linea è marcata, mai lasciata al caso, divide il colore, le forme, mai i piani. Il disegno è fine a sé stesso. E proprio il contrasto tra le forme che il colore riempie e il vuoto e il vacuo degli occhi dei suoi ritratti è ciò che di più familiare riconosciamo in Modigliani. Chissà s'egli nascondeva una polemica sociale in questi occhi vuoti, assenti, persi nel vuoto, senza vita e senza colore. Certo che il ritratto è stato il genere da lui prediletto. E il ritratto non solo è un genere alto della tradizione pittorica, religiosa e non, ma è un genere che richiede, oltre all'arte, un alto grado di apertura all'altro. Il volto è ciò che offriamo come dono, non si decifra un volto, non si scruta, esso si offre, va accolto. Ed evidentemente Modigliani vedeva sfilare innanzi a sé una serie di volti sconosciuti senz'anima. E' una lettura personale, è ovvio. Poi possiamo discutere di forme, dell'influenza del primo cubismo e della cultura africana sul Modigliani scultore e pittore, dei suoi colli lunghi, ma quel che più mi attira di Modigliani è il colore. E il colore, come diceva Kandinskij, fa vibrare l'anima. E certo Modigliani questo è riuscito a farlo pienamente, donandoci qualcosa di unico. 


                                                        
                                                        Ritratto di Jeanne Hébuterne

    
                                            Il violoncellista


Salò o le 120 giornate di Sodoma

E' un film di Pasolini, osteggiato, controverso, che non lascia indifferenti. A mio parere, una delle più alte e riuscite rappresentazioni dell'oscenità del potere, ché il potere è sempre anarchico. E in particolar modo lo è quello dei consumi. Il cinema è immagine, e qui le immagini sono scabrose, forti. Come il potere che il regista vuole criticare o, meglio, rappresentare. Salò è infatti un'allegoria del fascismo del potere consumistico, che riduce a merce, a feticcio la stessa esistenza umana, la vita, il corpo. Chiari i riferimenti alle bolge dantesche, a De Sade. Per Pasolini la vita e il corpo umano erano investiti di un'aura di sacralità che vedeva dissolversi con l'avanzare della massificazione, con il processo di mutazione antropologica da lui meticolosamente descritto. E' un film che io ho visto una volta sola, perché scuote in profondità. Fa riflettere che un film sul potere possa scatenare polemiche accesissime che il potere stesso in questione non scatena. Le critiche a Salò dovrebbero essere indirizzate all'oggetto della sua rappresentazione. Più il film è criticato, soprattutto dai moralisti, tanto più possiamo affermare la sua riuscita. 



Tempi Moderni

Tempi moderni di Chaplin è non solo uno dei miei film preferiti, ma anche uno dei film più belli della storia del cinema, come tanti altri di questo grande artista. E' un film sulla fabbrica, sugli operai, sulla società moderna, ma soprattutto sull'umanità e sul fatto che essa lotti sempre e comunque, a prescindere dalle contingenze storiche, per affermarsi. E, immancabile, l'amore, delicatamente declinato, dolcissimo e semplice. Un film sulla modernità che diviene metafora universale. Nei dialoghi con i lettori su Vie Nuove (1964), a un lettore, un operaio che gli chiedeva come mai i registi fossero così restii a parlare della vita dentro le fabbriche, sconosciuta ai più, Pasolini affermò che era difficile, dopo Tempi Moderni, parlarne ancora. Disse che si trattava di un film assoluto, che sulla fabbrica aveva detto tutto ciò che era possibile dire, descrivendone e riproducendone l'ossessiva ripetitività, l'alienazione. Io credo che più che assoluto, che nell'arte tutto e niente è assoluto, esso sia di una carica universale dirompente perché ci racconta come l'uomo possa ergersi al di sopra di qualsiasi macchina, di qualsiasi nevrosi, di qualsiasi lotta, di qualsiasi alienazione. In una delle sue lettere dal carcere indirizzata al figlio, Gramsci spiega il fascino su di lui esercitato dalla storia per il fatto che essa parla degli uomini, riguarda tutti gli uomini che lottano e combattono per migliorare la propria condizione. Chaplin è lontano dall'ideologia della lotta di classe. Nel film, il suo personaggio raccoglie per caso un drappo rosso dalla strada e si ritrova alla testa di un corteo operaio a sua insaputa. E' una metafora meravigliosa di come sia giusto lottare nella storia, nella politica, ma non quali membri di una classe, bensì quali esseri umani. Abbiamo tutti le nostre sofferenze. Una delle immagini più iconiche del film, non a caso, è il sorriso dell'operaio risucchiato dagli ingranaggi dei macchinari della fabbrica. E neanche è un caso che il film si chiuda sulle meravigliose note di Smile, composta dallo stesso Chaplin. 




                                            


Pasolini e il cinema di poesia

Nel 1966, Pasolini scrive un bellissimo saggio dal titolo "Il cinema di poesia", poi raccolto, nel 1972, in Empirismo Eretico (Garzanti, 1972). Pasolini si interroga sulle peculiarità del linguaggio cinematografico, sulle distinzioni tra questo e la lingua scritta e orale. Negli anni Sessanta, il linguaggio cinematografico era ancora in fieri, si andava normativizzando e costruendo attraverso l'opera di grandi autori, tra cui, appunto, Pasolini. A differenza del linguaggio letterario, non vi era una tradizione consolidata, cui rifarsi, nel senso della continuità o della rottura. Il discorso di Pasolini, quindi, riguarda esclusivamente il mezzo linguistico usato dal cinema, ossia l'immagine, che egli classifica come essenzialmente irrazionale, essendo l'immagine il linguaggio tipico del sogno e della memoria. Per Pasolini, si dà cinema di poesia attraverso l'uso dell'indiretto libero, ossia, dell'assunzione del punto di vista del personaggio che, nel cinema, ossia nel linguaggio dell'immagine, si traduceva nella soggettiva libera indiretta. Pasolini, pone una questione di stile nel quadro più ampio di un'arte nascente. Ma come definiamo la poesia? Davvero è solo questione di stile? E' una pura questione linguistica? Ricorriamo alla linguistica, e in particolare all'etimologia, per evidenziare come, innanzitutto, la poesia sia un atto creativo. La parola poesia viene infatti dal greco poiesis, che significa, appunto, creare. Attraverso il linguaggio non si scrive, si riscrive. Non si crea, si ri-crea. E gli artisti, e i poeti, attraverso la loro sensibilità e la conoscenza del mezzo linguistico usato, creano un mondo altro, attraverso cui guardare e rileggere il nostro. L'immaginazione, la visionarietà, l'evocazione ci aiutano a guardare il mondo con occhi nuovi. E questo fa il poeta, regista, sceneggiatore, saggista, intellettuale, Pasolini. Non ci si spoglia mai della poesia, non si può abdicare alla poesia. E' una qualità dell'animo. E' un'aria che si respira. E' ossigeno. Tutto questo per dire che, a prescindere dalle sue stesse analisi, il Pasolini regista è sempre anche il Pasolini poeta. Tra i suoi film, vorrei citarne uno che mi sta particolarmente a cuore: Comizi d'amore. Si tratta di un documentario in cui il poeta va in giro per le borgate o per i salotti borghesi, a porre domande sull'amore. E il candore con cui Pasolini si rivolge agli altri esseri umani parlando di un argomento che interessa e unisce tutti, la dice lunga sull'essenza dell'esser poeti, e su cosa sia la poesia. Più di ogni saggio, più di qualsiasi operazione intellettuale, Pasolini parla il linguaggio universale della poesia.







Caravaggio

Caravaggio, ovvero il genio maledetto, o il pittore maledetto. Quanti di noi non hanno sentito almeno una volta quest'affermazione? Conosciamo la sua vita sregolata, il suo essere uso a duelli, le sue fughe e i suoi approdi, la sua propensione a scegliere modelli e modelle dalle plebe in un periodo in cui questo era considerato uno scandalo, soprattutto quando i dipinti erano di soggetto religioso, ma quanto spesso ci fermiamo a riflettere sulla sua genialità? Non è forse vero che riconosciamo l'attributo di genio con più propensione a personaggi quali Leonardo da Vinci piuttosto che ad artisti unici come Caravaggio, che chiamiamo geniali quasi senza accorgercene? La vulgata del genio maledetto arriva a noi da Verlaine, che nel 1884, in pieno clima romantico, pubblica un'opera dal titolo I poeti maledetti. Maurizio Calvesi, uno dei maggiori studiosi italiani di Caravaggio, tende minuziosamente a smentire questa vulgata. Ma qual'è la genialità di Caravaggio? Consiste forse unicamente nel suo realismo? Nella sua tecnica sopraffina? Possiamo attribuire con disinvoltura quest'ultima alla Canestra di frutta e allo Scudo con testa di Medusa in ugual misura? Quando si parla della Medusa caravaggesca l'analisi critica è tutta volta a lodare la maniera in cui l'artista riesce ad annullare artificialmente la forma convessa dello scudo. Mito e simbologia a parte, la critica è volta a rintracciare la perizia tecnica di dipinti quali la trilogia di San Matteo anche in quest'opera. Chiunque l'abbia vista dal vivo, però, non può negare l'impatto che essa esercita sul fruitore come un unicum del proprio tempo. Sembra un'opera contemporanea. Ha lo stesso impatto visivo, sia dal punto di vista coloristico che del tratto. Caravaggio dimostra una versatilità unica, e un'aderenza unica al soggetto. Un altro elemento che lo rende un antesignano del proprio tempo è il fatto che questo grande maestro dipingeva improvvisando, ovvero senza alcun disegno preparatorio, come dimostrano svariate radiografie dei suoi quadri. Infine, l'ultimo elemento cui vorrei accennare, prima di apparire lunga e pedante, è la modalità in cui la luce è parte dei suoi quadri secondo modalità tipiche della fotografia moderna e contemporanea. Basti guardare la già citata trilogia di San Matteo e in particolare la Vocazione. Perché amo Caravaggio? Perché parla un linguaggio unico, assolutamente aderente al soggetto, che, a prescindere dal tema dei suoi quadri, è sempre l'umanità, nella sua universalità più alta e pura.  

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