Politica e società

Il potere dell'attualità

Ricorreva ieri l'anniversario dell'uscita nelle sale del film Quarto potere di Orson Wells. E non mi sembra possa esservi occasione più ghiotta per parlare del fascino indiscreto e invadente che la società contemporanea subisce nei confronti dello strapotere esercitato dalle notizie e dall'attualità. Che si tratti di cronaca, politica o sport, l'informazione è parte imprescindibile della nostra quotidianità; al punto da schiacciare qualsiasi dibattito propriamente culturale, ideologico e finanche propagandistico. Si tratta di un retaggio illuministico che, col tempo, e con l'avvento della società dei consumi, ha perduto la sua valenza rivoluzionaria. Il risultato è che viviamo in un eterno presente, privo di memoria, dove non c'è spazio per l'immaginazione, il sogno, la possibilità di progettazione di una società alternativa. Non viviamo più a misura d'uomo: assistiamo anzi alla reificazione dell'umano, alla riduzione a merce del corpo, delle idee, dell'arte, della cultura. Non credo, come Noam Chomsky, che il controllo esercitato sui mezzi di comunicazione equivalga all'esercizio del controllo sulle coscienze. Si tratta di un tema, molto in voga, da maneggiare delicatamente, da cui scaturisce la maggior parte delle teorie cosiddette del complotto che mettono in dubbio la stessa ragion d'essere della democrazia, che invece, con tutti i suoi limiti, va naturalmente salvaguardata nella sua doppia valenza di conquista storica e civile e di baluardo del diritto. Il problema non è politico o economico, ma culturale. Esso consiste principalmente nella mancanza di senso critico (che è un traguardo soprattutto individuale) e della coscienza della necessità di conservare uno spazio ampio e crescente per la memoria e l'immaginazione. Non è esistita ideologia che non fosse basata su un sogno, uno slancio emotivo, un'idea alternativa di convivenza sociale. Il crescente numero di opinionisti, pseudo intellettuali pronti a commentare acriticamente le notizie dell'ultima ora, i fatti del giorno, è un fenomeno estremamente recente. Fino agli anni Sessanta, esisteva un luogo deputato al dibattito propriamente intellettuale (le riviste) in cui intellettuali, scrittori e giornalisti si confrontavano sui temi ideologici e artistici applicando le proprie idee ai mutamenti radicali cui assistevano. E' seguito il '68, il terrorismo, il crollo degli ideali legati a una possibile industrializzazione a misura d'uomo, il crollo del muro di Berlino e poi, fatto di non poco conto, l'avvento della televisione privata cui la pubblica si è uniformata. La società dell'informazione, come si accennava, ha le sue radici storiche nell'Illuminismo; ma il razionalismo illuministico, nell'era postindustriale, come affermava Pasolini, ha un'effimera valenza sociale. A farci riflettere, l'esiguo spazio dedicato alle forme espressive che sfuggono a tale forma mentis: la poesia in primis. A differenza di altre epoche storiche, in cui la poesia era il genere letterario più diffuso, letto e dibattuto, nella nostra società è divenuto un bene di nicchia, un rifugio di pochi. La poesia, infatti, a differenza del romanzo e della saggistica sfugge al razionalismo, richiede un differente funzionamento delle nostre facoltà percettive e intellettuali; richiede, inoltre, un tempo più lento per sedimentarsi e aprirsi. L'invito, dunque, è a curarsi dalla bulimia d'informazione in cui annaspiamo, concedendoci spazi per coltivare quelle nostre altre e alte facoltà che soffrono di una contingente oppressione: attraverso l'arte, la natura, la memoria, l'immaginazione. Solo cambiando lo spazio interiore è possibile cambiare quello sociale e viceversa. 


Giustizia, giustizialismo, garantismo.

Nel mondo greco era la hybris, il peccato di eccesso rispetto all'armonia delle cose, che si credeva fosse giusta. Il mondo, così come lo si conosceva, recava in sé un ordine di giustizia, contravvenendo al quale si commetteva il peccato di hybris, appunto. Non ripercorrerò la storia della filosofia per delineare l'evoluzione del concetto, o meglio, ideale di giustizia. Diciamo soltanto che dall'ideale greco si è giunti in epoca moderna alla formulazione della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo con la quale, oltre a garantire il rispetto dei diritti umani, per la prima volta nella storia, si sancisce il diritto del rispetto alla dignità umana. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo si giunge alla compiuta formulazione del concetto di giustizia, che riguarda tutti gli uomini in quanto tali. La giustizia è dunque un'aspirazione, un'ideale universale cui tendere con il comportamento e il rispetto delle leggi. E qui veniamo al nodo della questione: il diritto. La filosofia del diritto costituisce un  argomento dal fascino unico, poiché, dal giusnaturalismo al marxismo, passando da Locke a Kant all'illuminismo, dibatte di temi attualissimi quali i diritti umani (diritti di natura, di proprietà, diritti di uguaglianza e solidarietà, ecc.). Il marxismo ha fatto della lotta per la giustizia una pragmatica lotta all'interno della società, affinché i diritti di una classe venissero estesi a tutti gli individui. E a lungo ha creduto che il diritto giurisdizionale fosse appannaggio della classe al potere. La sinistra, in Italia, è stata a lungo ostaggio dell'ideologia marxista. Le cose sono cambiate grazie alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e in occasione del mutamento della società italiana e dei fatti giuridici che l'hanno attraversata. Mi riferisco, in particolare, al Maxiprocesso e a Mani Pulite. Non è un argomento di cui si parla spesso, eppure il cosiddetto, erroneamente, giustizialismo di certa sinistra nasce proprio in quel periodo. E allora bisogna distinguere tra giustizia e giustizialismo, tra giustizia e garantismo. Tutto nasce dal grado di fiducia/sfiducia nelle istituzioni statali. Nella magistratura in primis. Ma i magistrati sanno che il potere nelle loro mani, per citare un magistrato in particolare, Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, "è un potere terribile". Nella sua requisitoria al processo contro Michele Vinci, il cosiddetto mostro di Marsala, che si tenne nel 1975 e di cui Vincenzo Consolo fece una stupenda cronaca su L'Ora di Palermo, storico giornale comunista e antimafioso, un vanto per la nostra terra (e mi riferisco all'Italia), Montalto, all'epoca PM, sottolineò proprio quanto fosse terribile il potere del magistrato, non rispetto all'idea di giustizia, ma rispetto a quella di verità. Nell'accertamento dei fatti, il magistrato produce una verità processuale che viene istituzionalizzata a prescindere dalla verità storica. I processi producono una verità sulla quale si basa il giudizio. Sembra di essere nel mondo pirandelliano. Quello del giudice è dunque un potere tremendo, perché ha la responsabilità innanzitutto di stabilire una verità. Da quella e solo da quella discende il giudizio, che è una cosa diversa dalla giustizia. Non voglio chiamare in causa Beccaria, né esprimere diffidenza nei confronti della magistratura, ma semplicemente riflettere sull'argomento in modo più consapevole rispetto al dibattito pubblico cui siamo abituati. Ormai si sente parlare non più di giustizialisti, ma addirittura di forcaioli in opposizione ai cosiddetti garantisti. Sembra di veder contrapposte le coalizioni del bene e del male. Ma attribuire alla magistratura una fiducia tale da poter decidere cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa è ingiusto è a dir poco eccessivo. La magistratura è una delle forme in cui si esplica la democrazia, ma non produce essa stessa giustizia. La giustizia, a mio parere, secondo l'insegnamento gramsciano, discende dalla cultura di un popolo, di ogni individuo e cittadino, dalla coscienza e consapevolezza che egli ha dei fatti e delle idee, dal valore dato all'uomo in quanto tale. Solo con la cultura si combattono corruzione, malaffare, depravazione, non affidando tutto questo al potere di un giudice.


                                            

                                            Un giovanissimo Ciaccio Montalto



                                           Antonio Gramsci



Il Postmodernismo

Viviamo in epoca postmoderna. Quel che molti sanno delle teorizzazioni relative al postmoderno, nella migliore delle ipotesi, derivano da Bauman, che parla di società liquida. Ho intenzione di spendere qualche parola sull'argomento rifacendomi a un testo letto una decina di anni fa: Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo di Fredric Jameson. L'autore è considerato il maggior teorico marxista americano. Quando lessi il libro la prima volta, mi sembrò una vera e propria bomba intellettuale. Ero assorbita dalla ricerca letteraria, dallo studio della critica letteraria e della filosofia politica. Oggi, che assegno un ruolo attivo e pragmatico alla poesia, del libro, come di ogni teorizzazione di sinistra che si rispetti, mi attira soprattutto la componente umana. Viviamo nell'era del tardo capitalismo, quella del libero mercato, delle multinazionali, di trust e holding. Nell'era della società di massa e del consumismo, dei loghi e della pubblicità. Dal punto di vista economico la differenza tra modernità e postmodernità è abbastanza chiara, dal punto di vista esistenziale e culturale, la principale frattura consiste nella posizione che nella società occupa l'individuo. L'individuo protagonista del suo dramma esistenziale, preda dell'inconscio, dell'alienazione, non esiste più. Per Jameson, "la società di capitali e il trust hanno depositato l'individuo (con le sue forme e le sue categorie) nella pattumiera della storia". L'individuo non è più connotato esistenzialmente, né culturalmente, né storicamente. L'individuo è un'entità frammentata e totalmente omologata in una collettività la cui distinzione in classi non è culturale, ma solo ed esclusivamente fondata sul possesso dei beni di consumo. Quasi tutti possediamo gli stessi beni, marchiati con loghi diversi. Paradossalmente, però, è proprio nella massificazione e nell'omologazione che si apre lo spiraglio di una possibilità di cambiamento. Quella di una coscienza unitaria, fondata sul comune senso di umanità, sull'appartenenza al genere umano. E', in fin dei conti, una meravigliosa spinta utopistica. Jameson definisce postmodernità la terza fase del capitalismo, in linea con la teorizzazione marxista. Inquadra politicamente qualcosa che, fino a quel momento, era stato astorico e asistematico. Quel che mi preme, è sottolineare come la cultura, nella nostra società, sia totalizzante. E il libro di Jameson, infatti, ha quasi carattere enciclopedico. Spazia dall'architettura alla letteratura alla fotografia. Respiriamo cultura come mai è successo nella storia umana. Ma, sarebbe più onesto dire che consumiamo cultura come consumiamo tanti altri beni. E allora, forse, porci la questione di cosa sia la cultura, della nostra idea e della nostra esperienza di cultura può aiutarci a rispondere alla domanda: mettiamo l'uomo al centro? Consumiamo cultura o cerchiamo di migliorare umanamente per mezzo della cultura? 

Le foto che seguono sono di Oliver Waslow, il quale si interroga sulla possibilità dell'utopia nella nostra società. Le sue immagini sono discontinue, disorientano, offrono un'idea di spazio, natura e città che non appartiene alla cartografia tradizionale. Anzi, ci fanno interrogare proprio sull'assenza di cartografia in uno spazio interamente occupato eppure immensamente vuoto come quello in cui spesso siamo abituati a vivere. 

 





L'omicidio di Pasolini

Nella notte tra il 1 e il 2 Novembre del 1975 Pasolini venne brutalmente assassinato sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia. I veri colpevoli sono ancora sconosciuti e si attende che giustizia sia fatta. La verità ufficiale vuole che ad uccidere Pasolini sia stato Pino Pelosi, un diciassettenne ragazzo delle borgate con cui Pasolini aveva cenato. Egli raccontò ai giudici di aver ucciso Pasolini per difesa, poiché questi era intenzionato ad abusare di lui. Racconto assurdo, non solo per l'indole del poeta, avulso a qualsiasi forma di violenza, ma perché il corpo di Pasolini era talmente martoriato che era impossibile le ferite fossero state causate da una tavoletta raccolta in spiaggia da Pelosi per difendersi così come egli raccontò subito agli inquirenti. Non solo, l'auto di Pasolini passò più e più volte sul suo corpo già in fin di vita. Dopo anni Pelosi ritrattò, affermando che con lui erano altri uomini meridionali, probabilmente di Catania, su un'altra auto. Eppure per anni la versione ufficiale fu la prima, complici molti intellettuali e la società civile del tempo, e il caso non fu più riaperto. Tutti diedero per buone le verità di Pelosi. Nel corso degli anni, molti vollero collegare l'omicidio di Pasolini al celebre articolo "Io so", in cui Pasolini affermava di conoscere i mandanti delle stragi, la verità sulla strategia della tensione, che sapeva tutto questo in quanto scrittore e intellettuale ma che non poteva fare i nomi perché non aveva le prove. La realtà, come sempre, è più complessa. Certamente Pasolini era un intellettuale scomodo, scomodo a molti, scomodo al potere nella sua forma più vera, scomodo alla politica. Le sue invettive sulla società dei consumi, sul nuovo fascismo, sulla DC, sono ancora un'eredità intellettuale forte con cui tutti dobbiamo fare i conti, ma riguardo la sua morte, il suo brutale assassinio, pare ci siano dietro dei collegamenti con l'omicidio Mattei e quello di Mauro De Mauro. Quando fu ucciso, infatti, Pasolini lavorava al suo libro Petrolio, edito parecchi anni dopo, nel 1992. Un capitolo, dal titolo "Lampi sull'Eni" era dedicato al caso Mattei, ma sulle prime non fu reso pubblico. Se così non fosse stato probabilmente l'esito del processo sarebbe stato diverso. Pasolini era intenzionato a dedicare un capitolo all'Eni, al caso Mattei e a colui che a Mattei succedette, il potentissimo e controverso Cefis. Mauro De Mauro fu ucciso dalla mafia, probabilmente sciolto nell'acido (il suo corpo non fu mai trovato), mentre lavorava a ricostruire le ultime ore di vita di Enrico Mattei, morto per un incidente (così si disse sulle prime - ma anche questo fu omicidio) mentre voleva sul suo aereo privato. De Mauro era un giornalista de L'Ora di Palermo, noto quotidiano di sinistra famoso soprattutto per le sue inchieste antimafia e il giornalista raccoglieva materiale per conto del regista Rosi, che sul caso Mattei voleva girare un film. Questi i fatti, importanti perché in un paese civile dovrebbe sempre essere fatta giustizia, e quando questo non succede non bisogna accettare passivamente il gioco del potere, ma lottare affinché la verità venga fuori. E anche riflettere sul fatto che esiste uno iato tra verità del potere, verità istituzionale, ossia la verità giuridica, e quella storica. Ecco, queste dovrebbero sempre coincidere, altrimenti dovremmo trovare un nome diverso per le sentenze espresse dai tribunali. La giustizia è un valore universale e parla con una sola voce. E quando non è ascoltata tende a urlare, molto forte, affinché ne si ascoltino le ragioni. 







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