Musica

Monk

Eccentrico bopper barbuto dai lineamenti grossolani e dalla estroversa se non istrionica stravaganza, newyorkese di nascita, incompreso a lungo dai discografici ma non dai musicisti, allievo alla Juillard School of Music e poi ampiamente autodidatta, fervente ammiratore di Ellington e Art Tatum, pianista fisso del Minton's, Thelonious Sphere Monk è uno dei miei pianisti jazz preferiti. Iniziò come pianista stride e mai si allontanò del tutto da queste radici, come dimostra l'ampio uso di questa tecnica nelle sue registrazioni di piano solo, che sono quelle che preferisco. Apparentemente avulso alle regole dell'armonia, il pianista che afferma che non esistono gli errori, era in realtà un profondo conoscitore dell'armonia, al punto da rielaborarla in uno stile unico, geniale, inimitabile. Il grandissimo senso del ritmo, la sensibilità profonda, fanno di quest'uomo uno degli spiriti più vivaci che abbiano popolato il panorama jazzistico dalle origini ai nostri giorni. Innamoratissimo della moglie, ma affascinato dalla contessa Pannonica, cui dedicò l'omonima celebre composizione, incise uno degli album per me più riusciti mentre vegliava la moglie Nellie in ospedale a San Francisco: Monk Alone in San Francisco. Suona in piano solo alcune delle sue più celebri composizioni mentre si trovava in uno stato emotivo del tutto particolare (com'è comprensibile). Ruby, My Dear, Round Midnight sono composizioni uniche, di un'intensità eccezionale, eppure Monk amava tanto suonare vecchie canzoni del repertorio popolare degli anni 20, adorabili a mio parere, tra le quali Dinah e I'm confessin'. 


La bossanova

Sono numerosissimi gli artisti brasiliani che contribuirono alla nascita del movimento; perché questo fu la bossanova: un movimento, un confluire d'anime, aspirazioni, talenti, idee e poesia attorno alla musica della tradizione che fu totalmente ricreata, dando vita a una realtà nuova, in continuo movimento, una realtà culturale oltre che musicale, aperta ai più disparati contributi. L'elenco degli artisti è lunghissimo; ne ricorderò alcuni partendo da Joao Gilberto, che fu la vera anima del movimento. Dalla sensibilità vocale e musicale unica, fu lui a creare il ritmo tipico della bossa, nel totale isolamento, in un momento di profonda crisi umana ed emotiva, mentre si era rifugiato in casa della sorella per provare a sfuggire ai propri fantasmi; sarà la musica che riuscirà a liberarlo. Si racconta che si chiudesse in bagno con la chitarra perché, secondo lui, lì l'acustica era migliore. Fu in quel bagno che nacque Bim Bom, una delle primissime canzoni, se non la prima, della bossanova. Joao era tutto proteso al suono, al ritmo, alla musica in senso stretto, ma a fare la bossa sono anche e soprattutto i testi, in cui si esprimono tutti quei sentimenti che contraddistinguono questo genere. La saudade innanzitutto, il sentimento di malinconia, quella nostalgia per qualcosa che è stato e non c'è più ma che conserviamo nel ricordo. Un sentimento dolce, sebbene di assenza e mancanza, perché legato a momenti e periodi felici: amore, gioia.. Fu il poeta e diplomatico Vinicius de Moraes a scrivere tanti testi meravigliosi, per lo più musicati da Tom Jobim, ma io vorrei ricordare almeno anche Newton Mendoça, uno dei compositori più proficui della bossanova, a cui dobbiamo testi come Meditaçao. Sono piccole cose quelle cantate dalla bossa, emozioni, semplici, situazioni e sentimenti semplici, come quelli che popolano la vita di ciascuno di noi: una barca nel mare, una ragazza che passa davanti a un bar, la fine di un amore, la solitudine consolata dalla musica... In Chega de Saudade, uno dei componimenti più noti, si dice che l'amante vorrebbe riempire la donna amata di tanti bacini quanti sono i pesciolini nel mare; in Desafinado, forse il manifesto del nuovo genere, si paragona il ritmo della bossa al battito del cuore; la già citata Meditaçao è un inno alla speranza; e potrei continuare, passando in rassegna le numerose canzoni della bossanova, per concludere che a contraddistinguere i testi del movimento è la semplicità, la liricità intrinseca che fa da contrappeso all'armonia di stampo jazzistico. Ed erano i jazzisti, infatti, in prima fila, quando gli artisti brasiliani rappresentanti della bossanova si esibirono al Carnegie Hall. Vi erano tendenze contrapposte all'interno del movimento, e ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare, ma vorrei almeno ricordare qualche altro esponente della bossa: Toquinho, Baden Powell, Elis Regina, Nara Leao, Carlos Lyra, Roberto Menescal, Joao Donato, Luiz Bonfà, Gal Costa.








Alone, di Bill Evans

E' un album di piano solo, registrato nel 1968 e pubblicato nel 1969. Il primo album di piano solo di Bill Evans, che segue l'esperimento di Conversation with myself e Further conversation. E' stato uno dei primissimi album jazz che ho ascoltato (sono molto fortunata) e tuttora è uno dei miei preferiti. Venivo dall'ascolto della musica classica, e ricordo l'impressione che mi fece The Two Lonely People, composizione di Bill Evans, in cui mi sembrava che l'indipendenza delle due mani al piano davvero esprimesse la solitudine delle due persone cui si accenna nel titolo. Bill Evans amava il piano solo, perché gli permetteva di esprimersi compiutamente attraverso uno strumento che questo lo consente. Gli permetteva di lasciarsi andare, di esplorare a fondo le possibilità di un brano; come succede in Never Let Me Go ad esempio, in cui suona per quindici minuti trasportandoci in luoghi di rara bellezza; e come succede anche in All The Things You Are, dove quasi il pianista non prende fiato e, con infinita dolcezza, in Midnight Mood, stupenda composizione di Joe Zawinul. Questo disco non è malinconico, sebbene Bill Evans lo fosse, e spesso trasmettesse nei brani questa sua nostalgia a una vita priva di dolore, a un sovramondo prettamente musicale in cui le sofferenze sono abolite e si veleggia liberi nel mare del ritmo e del suono. Di questo disco, Bill Evans ha detto che provò un senso di unità e unicità suonandolo, quasi che tutto quello che aveva introiettato, studiato, esperito e provato venisse fuori unitariamente in quest'album. Bill Evans, il pianista più imitato della storia del jazz, un rivoluzionario dolcissimo e umile, che amava suonare da solo benché fosse grande in lui la voglia di comunicare, da vero introverso quale era, ci spiega, in un bellissimo documentario girato col caro fratello che presto verrà a mancare, provocandogli un altro dolore indicibile, dal quale, questa volta, non si riprenderà, ci spiega, dicevo, ch'egli dava più credito all'ascolto e al parere musicale di un bambino o di una persona avulsa a una cultura musicale specifica, giustificando quest'affermazione col maggiore grado di libertà emotiva di questi ultimi, col legame più profondo con quella che lui chiama la "mente universale della musica", che è viva in ognuno, parla in ognuno, trascende i generi nei quali si esprime ed ha una forza comunicativa immensa. La musica è un linguaggio universale, un linguaggio emotivo e al tempo stesso codificato. E uno dei motivi del fascino di Bill Evans, risiede proprio nella sua capacità di mettersi contemporaneamente nei panni di un bambino che si sorprende per un suono e in quelli del musicista esperto. Bill Evans, che riesce a commuovere con un singolo accordo, che aveva una tecnica unica, un orecchio di una sensibilità adulta e infantile insieme, in quest'album, a mio parere, riesce davvero a comunicare se stesso, ad essere libero, in maniera molto più intensa che in altri album di piano solo che, non a caso, seguiranno. Un genio dell'armonia, ma a mio parere, anche della melodia, ché le due cose non si distinguono quasi nel suo caso. Il mio pianista preferito, che mi sta a cuore soprattutto per quello che la sua musica mi ha trasmesso e mi trasmette, poiché si trattava di uno spirito libero quello che per un po' ha popolato le fila dei grandi jazzisti, libero e travagliato, sì, ma semplice nella sua unicità e nel suo essere un rivoluzionario, cosciente delle proprie capacità e della direzione da prendere. Lui, che veniva dalla musica classica, l'unico bianco tra i neri in Kind of Blue, quasi con il disappunto di Miles Davis che amava profondamente il suo modo di suonare e forse non riusciva ad accettare che quella musica che tanto lo ammaliava venisse proprio dalle mani di quel ragazzetto gracile. Alone, un disco di piano solo, un disco di un musicista unico, ma un disco, soprattutto, che è esso stesso un unicum nel panorama musicale. Io amo il piano solo, ma mai riesco a trovare la libertà e insieme la precisione e l'attenzione tipiche di questo disco in altri musicisti. 






Il jazz

Qualche parola sul jazz, sebbene Louis Armstrong dicesse che se devi chiedere cos'è il jazz, allora non lo saprai mai.. Il jazz è musica improvvisata, musica nera, che nasce dal blues, dagli spirituals e dal gospel e che, col passare del tempo, si è contaminata: con la musica classica europea, con il rock e altri generi musicali (da cui la fusion). Alla base del jazz, ritmo, armonia, melodia. E l'improvvisazione. Individuale e collettiva, arrangiata e non. Il senso comune vuole che l'improvvisazione sia un qualcosa lasciato al caso, e quando si parla di jazz molti pensano a Gershwin, che in realtà era un compositore, il quale diceva che la vita è come il jazz: è meglio quando si improvvisa. Ma l'improvvisazione, nel jazz, è frutto di studio e lungo lavoro. Quando si improvvisa, eccetto che nel free e nell'improvvisazione libera, si parte da una traccia, uno spartito, cioè lo standard. Il musicista su quello ri-crea, ri-compone, inventando sul momento. Con gli altri musicisti si instaura l'interplay, ovverosia un dialogo, una domanda e risposta, un suonare insieme, un creare insieme. E non a caso, per Max Roach, il jazz era la forma d'arte più democratica che esistesse: è nella sua essenza. Facile fare la storia del jazz, difficile spiegare la musica. Ma, come tutta la musica, il jazz è fatto di ricordi, interazione, passione, armonia, ascolto e condivisione. Mi disturba l'intellettualizzazione nel jazz. Bill Evans diceva che il jazz non si può spiegare, perché è sentimento (come tutta la musica). In un documentario che si trova sul web, parla di mente universale della musica. E la musica davvero è fenomeno universale, un linguaggio condiviso da tutti. 


                                            
                                            Elvin Jones, McCoy Tyner, John Coltrane, Jimmy Garrison


                                                     Charles Mingus


La voce

Calda e delicata la voce di Caetano Veloso, raschiata e cupa quella del tardo Tom Waits; unica, plasmata dal dolore e dall'alcool quella di Billie Holiday, familiare a tutti la voce per antonomasia, quella di Frank Sinatra, voce nera, d'anima nera, quella d'Aretha, e poi c'è la voce più stratificata della musica, quella di Ella Fitzgerald, precisa e fluida, profonda e dolcissima, e ancora quella di Ray Charles, quella di Joao, e tutte le voci del rock, tutte le voci del blues, tutte le voci del funky e del soul, tutte le voci della musica in generale, che non sono solo le voci umane, ma anche le voci degli strumenti, o meglio dei musicisti che quegli strumenti suonano. La voce di Coltrane, inconfondibile, un timbro che accarezza l'anima come fanno le onde del mare, che l'anima la fa vibrare, sia ch'egli sussurri o che urli, che suoni rhythm and change o free, la voce di Parker, così diversa in Perdido e in quella versione di Lover Man che tanto significò per lui, la voce di Lester Young, calda come poche, come scirocco in primavera, una voce che davvero riscalda l'anima, la raggiunge e l'avvolge, l'abbraccia e la conforta. E poi le voci dei pianisti, di Bill Evans, che riesce a farti commuovere con un accordo, con un tocco, o quella di Chick Corea che sembra un dialogo continuo o forse, meglio, un flusso di coscienza. E poi, altissima, la voce di Chet Baker, quella sì, puro suono, istinto che include il raziocinio,  musicalità intatta, dono. E' una ricerca quella della voce, che non include solo il campo della musica, ma di tutta l'arte. La musica è la più universale delle arti, e, probabilmente, ingloba tutte le altre. E' musicale la parola, musicale il verso, musicale il cinema, la pittura. Il ritmo è il cuore pulsante dell'universo, una voce antica, un rumore di fondo, una vibrazione. 


                                            
                                            John Coltrane smiling

    
                                            Bill Evans


Keith Jarrett

E' di qualche giorno fa la notizia che Keith Jarrett, per via di due ictus, non potrà più suonare il piano. Onestamente lui non mi è mai andato particolarmente a genio, lo trovo approssimativo musicalmente e ossessionato da un'eccessiva pedanteria nella perfezione del suono. Nonostante questo, la notizia mi ha rattristato profondamente. Non mi va di tracciare la storia della carriera di Keith Jarrett, né di annoiare con notizie e informazioni (di cui siamo tutti saturi in qualsiasi campo dell'arte e del sapere), ma semplicemente, vorrei cercare di condividere ciò che di bello trovo nella sua musica. Perché, come tutta l'arte, quando si crea con onestà e verità, la musica comunica al di là dei gusti e dei generi. E, a mio parere, nessuna forma d'arte è capace di comunicare universalmente e unire allo stesso modo della musica. Per chi non è uso all'ascolto del jazz, vorrei spendere qualche parola sulla pratica dell'improvvisazione, che è alla base del jazz e di certa produzione di Keith Jarrett in particolare. Nel jazz si improvvisa generalmente a partire dallo standard, uno spartito, apparentemente di non difficile lettura, che può essere paragonato a un canovaccio o ad una traccia. Si studia, si ricama, si ri-crea. Jarrett praticava l'improvvisazione libera. Ha più volte affermato che non sapeva assolutamente cosa avrebbe suonato prima di un concerto. Lo decideva sul momento, si lasciava andare a quel che sentiva nell'istante, a quel che il pubblico e la sua interiorità gli comunicavano. E' così che nasce il Koln Concert, il suo concerto più famoso, conosciuto da molti, in Italia, soprattutto per la citazione che ne fa Nanni Moretti in Caro Diario. Ci sarebbe tanto altro da dire, sul disco, su Keith Jarrett e sull'improvvisazione nel jazz, ma in questo momento mi premeva soprattutto dedicare qualche parola a un grande musicista in un momento così delicato e triste della sua vita. E abbracciarlo virtualmente. Per quel che vale. 


                                            Keith Jarrett



Festival Sant'Anna Arresi

Sono venuta a conoscenza qualche giorno fa di un festival jazz in Sardegna, a Sant'Anna Arresi, di cui ignoravo l'esistenza. Non è un festival che presenta la solita line up, costituisce un'esplorazione musicale a tutto tondo del panorama artistico internazionale. Si è aperto con Hermeto Pascoal, ha visto alternarsi artisti come Max Roach, Chick Corea, Dizzy Gillespie, Don Cherry, Joe Lovano, Chet Baker, Michel Petrucciani, Pat Metheney, John Scofield, Herbie Hancock. Qualche parola vorrei spenderla su Hermeto Pascoal, un musicista e polistrumentista brasiliano sui generis, dall'inventiva fortemente emozionale, legata ai ritmi e ai suoni della natura, fonte d'ispirazione di molti jazzisti e non solo. E' soprannominato "lo stregone" o anche "il mago". La sua è pura passionalità, puro fluire di una musica che nasce dal profondo del suo essere e dalla connessione di questo con la natura e l'esistente. Per Miles Davis, uno dei più grandi musicisti al mondo. Riguardo il festival, invito a visitare il sito 

https://www.sascenasarda.it/trentatre-anni-di-santanna-arresi/


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