Recensioni
L'hobby del sonetto, di Pier Paolo Pasolini
E' una raccolta di sonetti che Pasolini scrive tra il 1971 e il 1973, tra Roma, Londra e Benevento, quando ha fine la sua storia d'amore con Ninetto Davoli. E mai Pasolini ha avuto il cuore così straziato, mai ha espresso tanto dolore, mai è stato così lacerato. Invoca il suicidio e la morte fin dal primo componimento, ma il tono cambia e oscilla, come solo nella sofferenza può accadere; si fa riflessivo e analitico, pur conservando la sua enorme pena. Ninetto, che fu al fianco di Pasolini per nove anni, conobbe una giovane donna, una certa Patrizia, con cui iniziò una relazione. Lo confessò al poeta solo dopo molto tempo, causandone lo strazio, non perché per lui l'amore fosse possesso, benché non celasse il dolore derivante dall'inganno, ma per il cambiamento che vedeva in Ninetto. Per lui l'amore era quello alto e puro che consiste nel volere la felicità della persona amata, ma Pasolini non riconosceva questa felicità in Ninetto; leggeva in lui, tra le altre cose, l'esser diventato schiavo di quelle convenzioni sociali che sempre, a fianco del poeta, aveva fuggito. Pian piano Ninetto si allontanò da Pasolini; la sua donna divenne sempre più gelosa, e giunse al matrimonio con questa, fino al costruirsi "una nera casa in stile fascista" come nido. Scrive Pasolini:
C'era nel mondo - nessuno lo sapeva -
qualcosa che non aveva prezzo,
ed era unico: non c'era codice né Chiesa
che lo classificasse. Era nel mezzo
della vita e, per confrontarsi, non aveva
che se stesso. Non ebbe, per un pezzo
nemmeno senso: poi riempì l'intera
mia realtà. Era la tua gaiezza.
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente; te n'è rimasto
un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto.
Pasolini scriveva sonetti fin dall'infanzia; gliel'aveva insegnato la madre. Scriveva sonetti quasi ad occhi chiusi, ma non è un caso che per dar voce a tutto questo dolore egli scelga questo genere. Certo, il sonetto è genere d'amore per antonomasia, e le poesie sono tutte dedicate a Ninetto; si rivolge a lui come il suo Signore, capovolgendo il genere su cui la tradizione è fondata. Ma soprattutto, secondo me, Pasolini aveva bisogno, in un momento così delicato della vita, in un momento di acuta sofferenza, di trovare un argine, un muro al dolore. Questo fa la penna, questo fa il sonetto. E' l'elemento razionale che egli contrappone al buio del dolore; ed è d'insegnamento come Pasolini, anche in una tale crisi, in un tale profondo strazio, alle tenebre contrapponga la luce della ragione, la lucidità dell'analisi e del sentimento. Umanissimo sempre, ma mai come in questa raccolta, Pasolini dimostra un'intelligenza emotiva da cui tutti possiamo imparare qualcosa; non da ultimo, il sentimento di solidarietà che ci fa sentire questo grande poeta e intellettuale così vicino, fragile e umano nel dolore che percorre ogni vita.
Nottetempo, casa per casa, di Vincenzo Consolo
Ambientato negli anni Venti, quelli dell'affacciarsi del fascismo, è un romanzo storico e corale, un romanzo che amo perché si afferma, sul disfacimento e sul caos, il potere salvifico dell'atto creativo e della scrittura. E' una fiducia, quella nella scrittura, che Vincenzo Consolo aveva e, da grande scrittore, ha sempre conservato. E' l'informe incandescente che si forma la scrittura, è l'ordine che diamo al caos, personale e storico, la scrittura, è più potente della politica la parola, lo è più di qualsiasi filosofia, di qualsiasi spiritualismo e misticismo. Alla fine del romanzo, il protagonista, in mare, pensa al suo quaderno, pensa che avrebbe dato "ordine, nome a tutto quel dolore". La sua personale odissea, trova compimento in quest'affermazione, da cui, presagiamo, troveranno spazio odissee più consapevoli, nuovi viaggi e nuove peregrinazioni che saprà come affrontare. Il romanzo si apre alla luce della luna, ma non è il fascino poetico ad esserne descritto, bensì l'aspetto oscuro, che ha dato adito a leggende che trovano eco nel primo capitolo del libro. Si apre su un luponario, infatti, la narrazione. E procede, quasi in una sfilata del dolore umano, declinato nelle sue molteplici sfaccettature. E quasi, sembra dire l'autore, è dal dolore e dal caos, e dal disfacimento che segue all'assenza della possibilità di essere forti nel dolore e padroni nel caos, che nasce il fascismo. Naturalmente il riferimento è a qualsiasi forma di fascismo. Ai fascismi vecchi e nuovi, di stampo politico o pseudo-culturale. E non è un caso, che in quegli anni, si affermasse, in Italia, il fenomeno Lega, con cui fortemente Vincenzo Consolo polemizzò dalle pagine dei giornali. Il fatto che la narrazione si apra con il vagabondaggio e il dolore di un licantropo, si fa metafora di una scrittura, di una cultura e di una letteratura che possono ammaliare e far perdere. Come il dolore, come la vita. Ma si chiude, come dicevo, nel segno della speranza e della fiducia nel potere creativo dell'essere umano e della scrittura in particolare, e, di conseguenza, nella storia e nell'umanità tutta. Sfilano una serie di figure unite nel dolore e nel caos: così le sorelle del protagonista, così Alister Crowley, così l'amico infuocato dalla fede politica. Il dolore ci unisce, riguarda tutti; poi, è un fatto che si curi delle differenze di classe, e questo è un punto di snodo nella narrazione. Proprio qui, infatti, Consolo sembra prendere le distanze da Sciascia, e non solo. Più della politica può l'arte, perché ha carattere universale e non particolare, perché è la creazione ad essere ordinatrice, non l'organizzazione. La scrittura ha il potere di ri-creare il mondo, delinearne uno nuovo sulla carta. Ha, in sé, la forza dell'utopia l'atto creativo. "Nasce ogni forma dall'informe, dal miscuglio l'ordine, la bellezza dal bisogno, l'armonia dal necessario. Amore e pazienza muovono il mondo". Un grande insegnamento per tutti noi, da parte di un'artista che metteva l'amore al primo posto, al di sopra di ogni arte. E forse che non si dà arte se non d'amore. Amore per l'uomo nella sua totalità. Ci sarebbe tanto da dire su questo libro meraviglioso e sul suo autore, sulla sua scrittura poetica e materiale, fatta di parole vere, sulla sua capacità immaginativa, sull'attenzione riservata alla storia e agli ultimi, al dargli voce, ma mi premeva andare al cuore della narrazione, condividere il mio punto di vista e, magari, invogliare a leggere il libro. Vincenzo Consolo ha purtroppo, in Italia, la fama d'essere scrittore ostico, difficile; niente di più falso. E' un grande scrittore, umano, che aveva la facoltà di amare la vita nel suo pieno dispiegarsi e darle senso e forma letterarie. Uno scrittore, indubbiamente, questo sì, scomodo al potere.
I giganti della montagna, di Luigi Pirandello
E' un un dramma, incompiuto, il cui ultimo atto è ricostruito da Stefano, il figlio di Pirandello, secondo le indicazioni che il padre gli diede in punto di morte. Fu steso nel 1933, ma Pirandello vi lavorava già dagli anni Venti. Nel 1929, ne parla in un'intervista rilasciata a Enrico Roma. Lo descrive come un dramma satirico, una satira del tempo, che racconta di una contessa, un'attrice, cui un caro amico, con cui aveva un legame molto stretto, lascia in eredità, alla sua morte, il suo lavoro drammatico, inedito e nuovissimo. La dedizione della donna alla messa in scena del lavoro insospettisce il marito, il quale credeva vi fosse un legame amoroso tra la moglie e l'amico autore, ma proprio la devozione della donna a quel dramma, che trascende ogni implicazione materiale, fa cadere i sospetti dell'uomo, certo che non possa esserci coinvolgimento della carne con un altrettanto intenso coinvolgimento spirituale. E su questo dissidio tra materia e spirito Pirandello dice di fondare il suo dramma. Nell'intervista, racconta di come la contessa, nonostante una brillante carriera, si fosse incaponita a voler rappresentare a tutti costi questo dramma dell'amico, a continuare a portarlo in scena nonostante gli insuccessi, certa che un giorno avrebbe trovato il giusto pubblico. Lentamente tutti gli attori l'abbandonano, finché non le restano accanto solo i guitti, i più umili, incapaci di staccarsi dalla capocomica più per viltà che per amore. La malmessa compagnia giunge un giorno in un imprecisato villaggio in cui un genius loci parla loro di questi ignorantissimi e ricchissimi contadini che vivono in cima alla montagna, i quali s'appressano a celebrare un matrimonio. In quell'occasione la rappresentazione avrebbe potuto aver luogo. E così, dopo un banchetto omerico, inizia. Ma gli spettatori confondono realtà e finzione, se la prendono con gli attori, parteggiano, arrivano a malmenarli. Così, dice Pirandello, si mescoleranno realtà e illusione, dramma e buffoneria. Ma rispetto a questa descrizione, gli anni passarono e l'opera, con l'andar del tempo, si approfondì, assunse connotati diversi. Il dramma si apre con un albero, un cipresso, e si chiude con un altro albero, un ulivo saraceno. Stefano racconta di come il padre passò tutta la penultima nottata della sua vita a pensare all'ultimo atto di questo dramma, atto ricostruito e illustrato scrupolosamente dal figlio, finché, al mattino, gli disse sorridendo: "C'è un ulivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto". Ma veniamo al dramma così come Pirandello l'ha composto. La compagnia della contessa giunge alla villa detta, incisivamente, " La Scalogna", dove vive Cotrone con i suoi Scalognati. Questa villa è un posto magico e misterioso, un luogo di sogno e illusioni. Pirandello, con gli anni, infatti, non approfondisce l'aspetto satirico del dramma, bensì quello del conflitto tra materia e spirito, realtà e illusione, che è il perno di tutta la sua opera. E' un dramma notturno, che si dispiega alla luce della luna e a quella delle lucciole: "Questo nero la notte pare che lo faccia per le lucciole". E le lucciole sono quelle di Cotrone, le sue, di mago: "Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l'invisibile; vaporano i fantasmi. E' cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l'amore... tutto l'infinito ch'è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa". E ancora, sulla verità: "Io ho sempre inventate le verità, e alla gente è parso sempre che dicessi le bugie. Non si dà mai il caso di dirla, la verità, come quando la si inventa... Le maschere non si scelgono a caso!". Tutto il racconto, i dialoghi, l'atmosfera sono intessuti di sogni e visioni, di riflessioni riguardo un'anima che, liberata dalla materialità di onori e oneri, valori e virtù, si fa "grande come l'aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze": Si parla dei sogni, che vivono fuori di noi, e del fatto che "ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni". Nella villa della Scalogna si vive nell'immaginario del sogno. Alla fine, si decide di mettere in scena il dramma per i giganti della montagna. Si troveranno di fronte i "fanatici dell'arte", gli attori e gli Scalognati, e i "fanatici della vita", i ricchissimi e burberi giganti. La contessa finirà uccisa. Per il marito, con lei sarà la Poesia stessa a morire. Ma per Cotrone, l'arte che oggi non parla ai fanatici della vita potrà sempre parlargli un giorno; sono i fanatici dell'arte, esclusi dalla vita, chiusi nei propri sogni che cercano d'imporre agli altri, che non sanno come parlare agli uomini. E' con questa consapevolezza che Pirandello chiude il dramma, e con esso sembra chiudersi anche quella dicotomia tra arte e vita che lo caratterizzò. Il dramma che si apriva con il cipresso, questo meraviglioso albero cantato dai letterati, da Pascoli a Carducci, si chiude con l'albero più caratteristico della sua terra: un grande ulivo saraceno, da cui si estrae l'olio che, un tempo, accendeva i lumi. Da un simbolo di morte a un simbolo di vita, dunque. Da una tradizione astratta alla concretezza. E forse fu proprio su quel letto, parlando al figlio e pensando al suo dramma, che Pirandello, figlio del Caos, trovò, finalmente, l'accordo, la pace.
Il Caos
Entromondo, di Antonio Castelli
Castelli fu scrittore di Castelbuono (Pa), dalla sensibilità rara, morto suicida nel 1988. Quest'opera, Entromondo, è di una bellezza inaudita, nel senso che raramente uno scrittore è riuscito a dar voce a quelle che lui stesso chiama "le radici" con tale intensità e delicatezza e, allo stesso tempo, musicalità, fermezza e verità. La parte principale dell'opera è costituita dalle Lettere di deportati della terra. Sono lettere di migranti, costretti a lasciare casa e affetti per ragioni di lavoro e necessità. Probabilmente nessuno, neanche Antonino Uccello, è riuscito a cantare con tale intensità la scomparsa del mondo contadino, a farci entrare nelle case e nei cuori di quegli uomini. Personalmente, posso dire, leggendo, di aver pianto. Si tratta del processo di omologazione della società italiana delineato da Pasolini quello raccontato da Castelli, ma con la voce tipica di quel mondo, non per processo di mimesis, ma per una ragione poetica, di affinità d'animo. Castelli parla di radici, parla di colture fresche, di terra, ma quello che avviene leggendo è che, per usare una sua espressione, cosmonavighiamo in un mondo di assoluta purezza, ed è l'autore a trasportarci su tali altezze.
Antonio Castelli
La paura dei barbari - Oltre lo scontro delle civiltà, di Tzvetan Todorov
"La paura dei barbari" è un libro di Tzvetan Todorov pubblicato da Garzanti nel 2009. Un libro che ha contribuito alla mia formazione culturale e che consiglio di leggere per fare chiarezza tra concetti complessi quali quello di cultura e culture, alterità, civiltà e barbarie, in un periodo in cui il rapporto con l'altro è reso più difficoltoso da una serie di pregiudizi e luoghi comuni che ci portiamo dietro e che sono spesso indotti. Un libro che non offre dogmi, ma che aiuta a sviluppare il senso critico, facendoci riflettere sul fatto che è "barbaro", ovvero sia fuori dalla sfera della civiltà, qualsiasi comportamento e giudizio che collochi l'altro al di fuori dell'umano; sul fatto che comportamenti per una cultura inspiegabili, lo sono proprio per via di consolidate abitudini e prassi, il che non significa però che queste debbano essere considerate inumane. Perfino pratiche come quella terribile della tortura sono considerate umane, essendo il male parte dell'uomo, assolutamente non da accettare, ma da giudicare e combattere attraverso gli strumenti adeguati: le leggi innanzitutto. Al di là e al di sopra di qualsiasi cultura, le leggi devono sempre essere volte al rispetto della dignità umana, delle minoranze, dell'alterità. Se la civiltà è una, ed è universale, le culture sono molteplici, e ciascuna di esse è relativa. Al di sopra, l'assolutezza delle leggi, che ricoprono il vario dispiegarsi delle contingenze particolari. Questo di Todorov non è un saggio antropologico, né etnologico. A voler inquadrarlo, potrebbe essere posto nella corrente del culturalismo, ma ne scivola fuori. Esso nasce in primo luogo dell'esperienza reale del suo autore, uno dei fondatori del formalismo russo, che, per motivi culturali, per l'anelito di libertà, la Russia lasciò per trovare l'agognata libertà in Europa. In particolare in Francia. E non è un caso che l'ultimo capitolo del libro sia dedicato proprio all'identità europea. Un continente amato da Todorov, un continente la cui eterogeneità trova la sua matrice proprio nella salvaguardia della civiltà, nei valori dell'accoglienza, del rispetto, del senso critico. Di cui tutti noi, come europei e come esseri umani, dobbiamo farci carico. Lietamente.
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